lunedì 11 aprile 2016
Timeless Persia e SOKUT, due reportage sull’Iran stanno per diventare libri fotografici
Due progetti di documentazione fotografica sull’Iran sono in procinto di diventare libri fotografici, grazie al contributo di crowdfunding, in scadenza tra pochi giorni. Per partecipare visitare il link http://www.kisskissbankbank.com/it/projects/sokut-timeless-persia
Scrivono i due autori, Davide Palmisano e Manuela Marchetti:
Siamo andati in IRAN nel 2015 con il progetto di documentare questo grande Paese, in procinto di uscire da oltre un decennio di isolamento causato dalle sanzioni internazionali, e da quella avventura è nata l'idea di realizzare due libri fotografici, per mostrare a tutti le suggestioni che questo luogo ci ha trasmesso.
Timeless Persia e SOKUT rappresentano per ciascuno di noi il primo libro fotografico.
L'idea è nata dal forte desiderio di lasciare traccia di un Iran che forse non ci sarà più. Siamo arrivati in Iran nella primavera del 2015 poco prima dello scoppio della “bolla mediatica” dell' #irandeal, prima degli accordi di Losanna del giugno 2015 da cui ha preso il via un processo di cambiamento tanto importante per la vita degli iraniani quanto inarrestabile e tumultuoso.
Attraversando l'Iran ci siamo accorti che c'è una bellezza antica che potrebbe sparire travolta dagli eventi. Una bellezza a cui ci siamo abbandonati, suggestionati da questo paese sospeso fra il passato e il presente, che non abbiamo voluto semplicemente descrivere ma raccontare attraverso le sensazioni.
Un viaggio nel "silenzio" come realtà che parla, come luogo dove trova espressione il linguaggio delle emozioni, ma anche un viaggio in un paese "senza tempo", dove passato presente e futuro si intrecciano.
Timeless Persia
è un racconto fotografico che esprime i contrasti e le contraddizioni dell'Iran e al tempo stesso racconto di viaggio in chiave personale. Il menabò di Timeless Persia è già stato selezionato con il terzo premio al concorso PhotoEbook, indetto dalla casa editrice Emuse.
(Timeless Persia - © davide_palmisano)
SOKUT
Le immagini di SOKUT (titolo, che significa "silenzio" in Persiano) penetrano nel terreno dell’intimità riconducendoci al senso collettivo del sacro. Alle immagini si alternano versi tratti dai testi delle celebri poetesse iraniane Forough Farrokhzad e Simin Behbahani.
(SOKUT - © manuela_marchetti)
Link: http://www.kisskissbankbank.com/it/projects/sokut-timeless-persia
venerdì 4 marzo 2016
ANDY SUMMERS FOTOGRAFO IN MOSTRA ALLA LEICA GALERIE MILANO CON “MYSTERIOUS BARRICADES”
Il celebre chitarrista dei Police arriva in Italia e presenta il racconto fotografico della sua vita tra note malinconiche e sfumature dark
“Music and photography are kindred spirits in that they are nonverbal arts, but handily, may have interchangeable terms”
A. Summers
Milano, 1 marzo 2016– Martedì 22 marzo alle ore 19.00 presso la Leica Galerie Milano (Via Mengoni, 4 – angolo Piazza Duomo), Leica Camera Italia inaugura la mostra “Mysterious Barricades” di Andy Summers, celebre chitarrista del gruppo The Police e apprezzato fotografo a livello internazionale.
Con la sua musica innovativa, Andy Summers ha rappresentato un vero riferimento per i musicisti di tutto il mondo. Già attivo nelle principali band londinesi, Summers raggiunge il successo nei primi anni ’80 come chitarrista del gruppo rock The Police. La sua carriera, come solista e compositore di colonne sonore, lo porta poi a collaborare con grandi artisti di fama mondiale. Pur non abbandonando mai la sua più grande passione, la musica, Andy Summers oggi è anche un rinomato scrittore e un abile fotografo. Ha infatti all’attivo mostre fotografiche di successo nelle principali gallerie internazionali: dalla Leica Gallery di Los Angeles e il Paris / LA Independent Photo Show alla Kunst.Licht Gallery di Shanghai, dalla CCC Gallery di Pechino alla Photokina di Colonia con numerose esposizioni in programma anche per la prossima stagione.
Alla Leica Galerie Milano sarà presente con il progetto fotografico “Mysterious Barricades” ispirato all’omonimo successo musicale, che raccoglie 40 scatti in bianco e nero, immagini delicate che raccontano la vita dell’artista nella sua doppia veste di musicista e fotografo sempre in viaggio: dall’altopiano della Bolivia ai vicoli del Golden Gai di Tokyo, dalle strade di Napoli alle vedute di Shanghai.
La mostra ripercorre i vari stadi di ispirazione fotografica di Summers, sempre influenzati dalla musica. Le immagini descrivono situazioni in sospensione o“in progress” che trasmettono un senso di intimità, tra il surreale e l’ambiguo, talvolta con sfumature oscure e note malinconiche che ricordano le sonorità delle sue melodie.
“The photography I create is a visual counterpart to the music that never leaves my head […] The own act of photography is as tearing pages from a book and then reshuffling the results into a new visual syntax.”In queste parole è racchiuso il concetto di fotografia per Summers, imprescindibile dalla musica e complementare ad essa.
Dal 22 marzo al 3 maggio 2016 alla Leica Galerie Milano, attraverso le immagini di “Mysterious Barricades”, sarà quindi possibile respirare tutto l’estro creativo dell’artista in un coinvolgente binomio musica-fotografia.
Per l’occasione, l’artista sarà presente alla serata di inaugurazione.
Biografia Andy Summers
Andy Summers divenne famoso nei primi anni ottanta come chitarrista dei The Police, la rock band nata a Londra nel 1977 che complessivamente ha venduto circa 75 milioni di dischi. I Police erano la band più in voga dell’epoca e negli anni ottanta dominavano la scena musicale e i media con diversi brani al primo posto nelle classifiche, come Every Breath You Take, Roxanne, Don’t Stand So Close to Me, Every Little Thing She Does Is Magic, Invisible Sun, ecc. La band vinse diversi Grammy e riconoscimenti vari, troppi per menzionarli tutti.
Il modo innovativo col quale Andy Summers suonava la chitarra creò un nuovo riferimento per i chitarristi del periodo e da allora ha visto molti imitatori. Prima dei Police, Andy Summers aveva suonato con vari gruppi e protagonisti della scena londinese, compresi Soft Machine, Kevin Coyne e Kevin Ayers.
Dopo i Police, ha poi realizzato diversi dischi da solista, ha collaborato con numerosi artisti ed è stato in tour in tutto il mondo. In più, ha composto colonne sonore di film e si è espresso anche in campo fotografico con mostre e libri.
Nel 2006, la sua autobiografia One Train Later ottenne un notevole successo e venne votata come libro dell’anno in campo musicale nel Regno Unito. Il film Can’t Stand Losing You basato sul libro vide la sua trasposizione teatrale negli Stati Uniti da parte di Cinema Libre nel marzo 2015. È disponibile anche il DVD del film, insieme al più recente CD di Andy - Metal Dog.
I suoi progetti recenti comprendono l’uscita del disco “Circus Hero’ con la sua nuova band Circa Zero! dall’aprile 2014, tour in Brasile con Rodrigo Santos e la colonna Sonora del film turco “E il circo lascia la città...”
Di recente si sono tenute sue mostre fotografiche presso la Leica Gallery di Los Angeles, Paris / LA Independent Photo Show, Kunst.Licht Gallery di Shanghai, CCC Gallery di Pechino e presso la Photokina di Colonia, in Germania.
Altre mostre fotografiche programmate a seguire a San Paolo in Brasile e a Rio de Janeiro per il quotidiano Globo.
Andy Summers è presente nella Rock and Roll Hall of Fame e nella Guitar Player Hall of Fame, oltre ad aver ricevuto le chiavi di New York City! Inoltre è stato premiato come Chevalier De L’Ordre Des Arts et Des Lettres dal Ministero della Cultura
“MYSTERIOUS BARRICADES”di Andy Summers
Leica Galerie Milano – Via Mengoni, 4
Dal 22 marzo al 3 maggio 2016
Orari: lun 14.30-19.30/ mar-sab 10.30-19.30 – domenica chiuso
Ingresso gratuito
Per ulteriori informazioni:
Close to Media – Ufficio Stampa Leica Camera Italia
Tel.: 02/70006237
Francesca Pollio – francesca.pollio@closetomedia.it
Michela Gelati – michela.gelati@closetomedia.it
martedì 16 giugno 2015
Fotografare ai concerti live, una fotografia fatta di tecnica e cuore – parte 2
Presentiamo ai lettori di Fotobiettivo una serie di articoli dedicati alla fotografia di concerti. Gabriele Bientinesi, responsabile per la comunicazione e la fotografia al Festival Musicastrada e fondatore della scuola Fotografando, accomunando la sua passione tanto per la musica che per la fotografia, ci apre al mondo della fotografia live con un taglio didatticamente rigoroso e al contempo coinvolgente…
…continua da : Fotografare ai concerti – parte 1
4 - Una finestra sul mondo.
Il sensore d’immagine, c’è poco da fare, è come una finestra: più grande è, più luce entra...
Ce ne rendiamo immediatamente conto quando guardiamo uno scatto fatto con una reflex o una mirrorless di ultima generazione rispetto alla stessa scena ripresa da una compatta o da uno smartphone. Finché c’è luce, quando c’è il sole, tant’è, spesso anche l’iphone fa miracoli, ma al buio...
Al buio è un’altra storia, c’è poco da fare. La differenza di dimensione del sensore si fa vedere, e tanto. La capacità di intrappolare la luce in ogni dettaglio diventa incredibilmente superiore e regala risultati eccezionali anche in condizioni davvero difficili.
Sulla differenza che c’è invece tra un sensore Full-Frame e un DX (o APS-C), magari vale la pena di spendere qualche parola.
Se dicessi che il sensore FF non è superiore sarei bugiardo. D’altronde se dicessi che il formato DX ha solo svantaggi sarei bugiardo allo stesso modo.
Ogni sistema ottico ha i suoi pro e i suoi contro. Al buio la differenza si vede, inutile negarlo, con il FF si lavora meglio, già a 1600 ISO la differenza è notevole. Il rumore è minore e più gestibile, i dettagli e la definizione sono superiori, la gamma dinamica più ampia. A sensibilità superiori lo scarto diventa ancora più netto.
Ma siamo sicuri di avere veramente sempre bisogno di sensibilità così elevate e di tanta definizione da poter stampare un’intera parete? Secondo me no.
Si possono ottenere risultati eccellenti e professionali anche con un sensore DX, a patto di essere consapevoli delle sue possibilità e dei suoi limiti. Senza contare naturalmente l’aspetto economico, che da solo basta e avanza come discriminante per tanti...
Il FF è superiore sotto tutti i punti di vista. È più preciso, più definito, e restituisce una gamma dinamica più ampia. Il DX è meno definito e più sporco, ma più economico e più gestibile, e spesso offre prestazioni più elevate in termini di velocità di scatto e di reazione. In termini di acutanza potremmo assimilare il formato DX alla vecchia pellicola 35mm, il FF al medio formato 6x4,5 o 6x6.
Il cosiddetto “fattore di moltiplicazione della focale” (1,5x su Nikon, Sony, Pentax e Fuji; 1,58x su Canon; 2x su Olympus e Panasonic) ha invece pro e contro allo stesso tempo. Allo stesso modo in cui ha bisogno di focali più corte per inquadrature grandangolari, così aiuta non poco a focali elevate, consentendo di risparmiare in termini di costo e di peso quando si necessita di lunghi teleobiettivi.
Per fotografare un concerto avremo sicuramente bisogno di utilizzare alte velocità ISO, e dettaglio e nitidezza non sono mai troppi... credo però di potervi garantire personalmente che otterrete risultati migliori con un sapiente uso di un sensore DX e una buona ottica, che con un Full Frame usato approssimativamente abbinato magari a un obiettivo non proprio eccezionale.
Giusto per parlare di prestazioni... a lezione, a un corso di livello avanzato, mi trovai in mezzo a un’accorata discussione sul se e sul quanto una fotocamera fosse migliore dell’altra. Misi sul lettino da still-life il mio orologio da polso e feci ritrarre ai due “contendenti” lo stesso soggetto, con la stessa inquadratura e con lo stesso obiettivo. Canon 5D Mark II contro Canon 7D, due signore di alta classe, una FF l’altra APS-C. 24-70/2,8L, 200 ISO, cavalletto e luce continua per entrambe.
Risultato: praticamente impossibile distinguere gli scatti...
Morale (sempre quella):
la macchina aiuta, sicuramente...
Qualcosa può fare l’ottica...
La foto la fa il fotografo.
5 - Ottiche, ottiche delle mie brame...
Chi sono le migliori del reame?... Facile... Non ci sono!
O meglio, l’ottica migliore, la più adatta, è quella che vi consente di fare nel miglior modo possibile ciò che vi eravate prefissati o che avevate immaginato. Quella con cui vi trovate meglio, magari quel peletto più leggera o più pesante a gusto vostro. In poche parole quella o quelle che vi piacciono di più. Non c’è un “canone professionale” preciso e prefissato che dovete rispettare altrimenti non va bene, non state facendo un beauty o una riproduzione fedele in still-life, tutto dipende da dove siete, da quanto lontani siete, da quanto tempo avete, da quanta luce c’è a disposizione e, soprattutto, da cosa volete fare.
Ah, una piccola parentesi, io sono abituato a ragionare in 35mm, per cui se lavorate in DX o APS-C considerate il fattore di moltiplicazione.
Dunque dicevamo... se siete accreditati come giornalisti o fotografi a un concerto relativamente grande avrete pochi minuti per scattare da sotto il palco, per cui il consiglio è semplice: un paio di macchine al collo con roba tipo 24-70 e 70-200 montati (ovvio se ne avete una sola tenete il secondo obiettivo a portata di cambio) e vedete quello che vi è possibile fare.
Se invece state lontani avrete bisogno di ottiche più lunghe, se siete ufficiali e potete magari salire anche sul palco vi serviranno magari anche grandangolari un pelo più spinti (tipo 20/24) per rendere la sensazione di “profondità” ed entrare nella scena. Se siete davanti al palco e volete essere precisi e accademici riconducetevi alla fotografia di figura: sopra i 70mm e giustezza nella profondità di campo. Se volete scatti ai volti o alle mani dei musicisti o magari particolari dello strumento o dell’esecuzione allora un tele medio alto (200/300 mm) sarà più utile.
Ovvio che più la vostra ottica è luminosa meno dovrete ricorrere ad alti ISO, sicuramente questa diventa una discriminante forte nella scelta di lavorare con un 2,8 invece che con un 5,6 o 6,3, senza contare che quasi sempre una maggiore apertura relativa è sinonimo di una più alta qualità ottica. Tenete sempre a mente che ogni ottica ha, fra virgolette, un tempo di otturazione minimo utilizzabile con tranquillità, indipendentemente da qual è la velocità di movimento del soggetto. Se state scattando a 200mm sarà dura scendere sotto 1/200sec., magari uno o due terzi di stop meno se siete stabilizzati. In ogni caso per usare tempi tipo 1/60, che di per se basterebbero a inchiodare magari il movimento del soggetto ma sono poco compatibili con l’angolo di oscillazione della focale, avrete bisogno di un cavalletto. Scattare dal treppiede vi permette tecniche di scatto creative, anche di movimento (avete presente Ernst Haas?) difficili da eseguire senza (e ricordatevi di spegnere lo stabilizzatore, io lo dimentico sempre!).
Se siete scolastici fino in fondo e usate ottiche fisse, io non rinuncerei a un buon grandangolo e almeno a un medio tele. Scelte che vi fanno camminare di più ma spesso aiutano a trovare la giusta inquadratura, proprio perché vi costringono a guardare bene il soggetto prima dello scatto, senza contare che garantiscono quasi sempre una qualità ottica e una luminosità superiori agli zoom.
In definitiva ogni obiettivo ha caratteristiche intrinseche, per progettazione e costruzione che lo rendono diverso da ogni altro. A parere mio la scelta migliore resta sempre la stessa: usate quello con cui vi trovate meglio...
6 - Al sole o a lume di candela?
Ma il flash? Serve davvero? Aiuta? O magari può anche peggiorare le cose?
«Pensiamo all’interno di una stanza, di un rifugio, di una tenda. Pensiamo al senso di intimità che solo la luce disponibile è in grado di suggerire. Pensiamo alla luce cruda e piatta del flash, agli occhi rossi, agli sguardi spiritati, agli oggetti della stanza impietosamente illuminati come se improvvisamente un gigante dispettoso avesse scoperchiato il tetto.
E chiediamoci: l’immagine che voglio comporre ha davvero bisogno di tutta quella luce?» [cit. Michele Vacchiano “Il sole portatile” 2001]
Non è specifico sugli argomenti trattati qua ma credo che renda molto bene l’idea...
C’è da dire che in casi come il nostro, nella fotografia di spettacolo, il lampeggiatore è anche estremamente fastidioso, sia per l’artista, sia per il pubblico (in teatro, per esempio potreste anche venir buttati fuori!). Il flash, paradossalmente, al buio serve a poco, le cose che servono davvero sono ottiche veloci e un cavalletto.
Soprattutto il flash della vostra macchina e soprattutto se non siete abbastanza vicini. Fate un conto rapido: un piccolo flash come quello incorporato avrà una potenza si e no di NG 12, forse 14, questo vuol dire che per coprire una distanza di 6 metri a 50mm vi serve un’apertura relativa di f/2; alzate l’ISO e migliorate le cose... ma vi rendete conto subito che se dovete lavorare comunque a 800 ISO tanto vale tenerlo spento. Senza lampeggiatore alzato evitate la brutta “flashata” sulle parti chiare del soggetto, rendete meglio l’atmosfera delle luci di palco ed evitate di dar fastidio a chicchessia.
Può darsi che vediate usare il flash a qualche fotografo ufficialissimo su un grande palco che si mette accanto all’artista per fare un primo piano o un dettaglio, magari usando un deflettore o un diffusore per creare luce negli occhi, diversamente è davvero poco utile. Per cui vi direi: usatelo il meno possibile, e soprattutto evitate di dar retta alla vostra fotocamera quando vi dice di alzarlo.
7 - Bianco, rosso e...
Il miracolo del bilanciamento..
Settare il bilanciamento del bianco per la luce di spettacolo può sembrare un’impresa tanto sono variabili, molto dipende dalla bravura del tecnico e dalla capacità dell’impianto luci di offrire un “tappeto” neutro o quasi su cui poter lavorare, sfruttando i fasci di luce più colorati come luci secondarie o accenti.
Spesso però lo spazio è poco, o il concerto non si presta a troppi cambi di luce, per cui ci possiamo trovare a fare i conti con una forte dominante magari rossa o blu o di chissà quale colore.
Da un punto di vista tecnico le luci di palco sono quasi sempre faretti (par o simili) a incandescenza o fluorescenza, con una temperatura intorno ai 3500-45000 °K, con montate davanti delle gelatine per colorare la luce. Da qualche anno si cominciano a vedere anche molti fari a LED RGB, fonti di luce colorata direttamente all’origine. In entrambi i casi, se doveste ricreare il colore reale dello strumento o del dettaglio l’unica soluzione sarebbe un approccio da studio, fare il bilanciamento del bianco prima di ogni foto o attaccare un check all’artista... Direi che rasentiamo il ridicolo.
Se il tecnico o la band hanno scelto come luce principale una tonalità rossa, o blu, probabilmente avevano i loro motivi. Magari è una scelta stilistica per evocare una determinata sensazione, o forse si adattava meglio all’ambiente circostante. Oppure, banalmente, piaceva così o non c’erano gelatine di altri colori. In ogni caso, se l’artista è illuminato di blu non vedo il motivo per far sparire quel colore e riportare il tutto ai reali pigmenti. Se volete raccontare forme e contrasti rinunciando all’atmosfera del colore scattate o sviluppate in bianco e nero.
Nel 99% dei casi la vostra fotocamera si comporterà in maniera egregia con il bilanciamento del bianco impostato su automatico, se si tratta di una macchina particolarmente vecchia (che so una Nikon D100 o giù di lì) e proprio non ne vuol sapere di restituirvi un’immagine credibile, provate a farla lavorare su sole pieno, tungsteno o fluorescenza, una delle tre restituirà una foto corretta.
Un altro approccio può essere ragionato sulla tinta, ovvero sul colore della gelatina che è stata messa davanti alla fonte di illuminazione. Se la fotocamera vede una dominante preponderante sulle altre lunghezze d’onda può tendere a tagliarla per compensare e restituirci una foto priva di vividezza, “moscia” per intenderci. Per ovviare a questo potete agire sul bilanciamento colore della fotocamera o sullo “shift” del bilanciamento del bianco (dipende dai software dei costruttori). Se c’è troppo rosso e la macchina lo taglia, ditele che c’è sul serio e non sta vedendo male. Basta spostare il cursore nella direzione di quel colore in modo da esaltarlo e renderlo più vivo.
Detto tutto questo, potete sempre scattare in RAW, in modo da poter fare tutte le regolazioni e gli esperimenti del caso con calma in fase di sviluppo su ogni singolo scatto.
CONTINUA…
© www.fotobiettivo.it / gabriele bientinesi
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lunedì 18 maggio 2015
Storie #1/1 - L’istante di Roberto (anonimo terremotato)
I disastri e le calamità che accompagnano la storia del nostro paese mettono a nudo le sue ataviche fragilità. Il terremoto che colpì la provincia dell'Aquila nel 2009 lasciò molte vittime e macerie non solo nel tessuto urbanistico, soprattutto in quello sociale. L'Aquila ancora oggi è una ferita aperta sull'incapacità dei governi di risanare la devastazione
sabato 31 gennaio 2015
Fotografare ai live – Workshop di fotografia by Fotobiettivo
Non c'è niente di più piacevole di portare a casa un bello scatto dal concerto del musicista che più ci piace o anche voler realizzare un intero servizio su un evento live, un concerto o uno spettacolo in teatro. Eppure gli automatismi della fotocamera non bastano per ottenere le stesse immagini realizzate dai professionisti, anche un'attrezzatura professionale non è sufficiente, occorrono molti accorgimenti e una postproduzione apposita.
Quale che sia la vostra aspirazione, anche, perché no, farne un lavoro in futuro, questo workshop è per voi. Il corso è breve e intensivo, si rivolge a principianti e fotografi esperti, infatti si viene seguiti individualmente. Affronta la scelta di ottiche idonee, la tecnica fotografica, i piccoli segreti per trovare lo scatto sotto il palco, la difficile postproduzione delle fotografie ai live.
Per garantire il massimo della qualità si accettano un numero massimo di 5 iscritti a ogni workshop di questo tipo.
IL WORKSHOP SI TIENE A ROMA
Per tutti i dettagli telefonare al 320 8937525
lunedì 13 gennaio 2014
Witness Journal Issue #59 – con un reportage di M.Palladino sui cimiteri navali del Gujarat
É online il nuovo numero di Witness Journal, il #59 alla seconda uscita dal cambio di redazione. Questa uscita all’inizio del 2014 rappresenta la seconda tappa di un percorso di rinnovamento del giornale iniziato con il cambio di editore avvenuto lo scorso numero e sotto un nuovo coordinamento editoriale. Witness Journal è una realtà di pregio nel panorama editoriale italiano dedicato al reportage e ambisce entro l’anno a diventare anche cartaceo. In questo numero tra l’altro trovate anche il reportage realizzato da Marco Palladino in India che documenta la dura realtà dei siti di smaltimento delle navi, dove ogni anno perdono la vita migliaia di lavoratori esposti alle contaminazioni tossiche e agli incidenti sul lavoro. Si tratta di operai che provengono da zone molto povere e non ricevono alcuna formazione né forma di sicurezza per uno dei lavori considerato dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro come il più pericoloso al mondo.…>>
LEGGI IN WITNESS JOURNAL #59 >>
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domenica 6 ottobre 2013
Paesaggi di rami e ghiaccio. Le montagne di Filettino in inverno.
Collegata alle informazioni che trovate nell’articolo Filettino, ultimo avamposto laziale prima dell’Abruzzo, ecco una gallery di fotografia paesaggistica che ritrae le montagne intorno Filettino partendo da Campo Staffi. Le foto sono state scattate all’inizio di aprile, poco prima dello scioglimento della neve.
Filettino, ultimo avamposto laziale prima dell’Abruzzo
di Silvio Zappi
Filettino, ultima terra laziale prima dell’Abruzzo, sorge nel territorio del Parco Naturale Regionale dei Monti Simbruini ad un’altitudine di 1075 m sul livello del mare; è il comune laziale con l’altitudine più elevata. Con i suoi 550 abitanti ospita la fonte sorgiva (Fontana Caraffa o delle tre cannelle) del fiume Aniene, nome quest’ultimo che deriva da un’antica leggenda che racconta di Anio, figlio di Apollo, subire un rapimento della figlia da parte di Catillo; Anio nel tentativo di oltrepassare il fiume annega e apparendo poi sotto forma di spirito porta in salvo la figlia.
venerdì 20 settembre 2013
giovedì 30 maggio 2013
Che bella questa foto…merito certamente di Photoshop. Postproduzione e ritocco.
Che bella foto, chissà che interventi hai fatto in Photoshop? Volente o nolente qualsiasi fotografo si trova oggi a confrontarsi con domande del genere. Basti pensare alla foto vincitrice del World Press Photo Award 2013, la bella fotografia di Paul Hansen che tante reazioni ha suscitato, come è giusto che sia, la gran parte però rivolte al fotoritocco, secondo molti eccessivo, e ancora una volta tutti a scagliarsi contro il fotografo, reo secondo molti di aver calcato la mano per spettacolizzare una sua foto solo attraverso un uso quasi pittorico della luce e del colore, sicuramente ottenuto in maniera fasulla in postproduzione, secondo i molti detrattori.
C’è chi è arrivato ad ipotizzare che la luce sui volti, che arriva da sinistra, sia stata ricreata artificialmente dal fotografo in postproduzione, che fosse “impossibile” avere una simile luce. Senza nemmeno bisogno di ricordare che la luce rimbalza e che nulla di irreale appare in questa foto, mi chiedo perché ci sia tanta attenzione al fotoritocco e poca a ciò che la fotografia comunica e soprattutto racconta, trattandosi di immagine giornalistica. Quasi che il “teatro di posa” che è diventata la Palestina ormai faccia parte di una storia infinita, nell’immaginario collettivo, un fatto immutabile: “Toh guarda un’altra foto sui morti ammazzati in Palestina…mah, vediamo che postproduzione ha usato il fotografo…”
Questa la foto incriminata, che molti ormai conoscono
Alleggeriamo il tutto e parliamo di un contesto personale. Mi arrivano spesso domande da parte degli allievi circa la postproduzione dei miei scatti. Registro sempre tra chi inizia la sua avventura fotografica una convinzione che il passaggio in Photoshop sia ciò che dona a una foto la sua atmosfera e la sua intensità. A malincuore arrivano più domande in tal senso che non sulla visione del fotografo, o su ciò che lo ha portato a scegliere una determinata prospettiva, a mettere in risalto determinati elementi, o più semplicemente l’ora del giorno, la luce, ecc.
La postproduzione è un passaggio obbligato, si sa, ma appare agli occhi dei più la scorciatoia, quasi il “trucco di magia” con cui anche un fotografo mediocre può creare quasi dal nulla immagini spettacolari. Che ciò avvenga è risaputo, ma le foto mediocri appaiono spettacolari solo a chi non s’intende di fotografia , anche se ne consuma molta, il che oggi significa una moltitudine di persone. Anche in ambito di fotogiornalismo, si sa, la spinosa questione del fotoritocco fa passare notti insonni alle giurie più prestigiose. Tuttavia ritengo che chi, come nell’esempio della foto di Hansen, spara bordate contro la scelta di postproduzione sia decisamente in malafede. Possiamo ragionare tutt’al più sulla necessità di “finalizzare” (mi piace il termine inglese “tuning” che rende bene l’idea, lo utilizzerò in questo post), dare quel tocco finale a un’immagine, ma in il rischio è che oggi il fotografo “deve” esagerare per farsi notare. Mi chiedo se i fotografi non siano piuttosto vittime, tra l’altro sempre pronti ad aizzarsi l’uno contro l’altro.
Torniamo al ragionamento. Il fotoritocco come alternativa al saper fotografare, in un certo senso è questo che emerge. Non a caso nel fotogiornalismo, anche per tradizione, c’è una scuola di pensiero che sostiene le immagini grezze, dure e dirette e non solo pochissimo elaborate, anche pochissimo “pensate”. Di contro fotografi che hanno fatto della loro firma stilistica particolarmente evidente, spesso ottenuta in camera oscura (tradizionale), un segno di distinzione. In un certo senso la replicabilità del processo digitale ha fatto perdere valore a questo aspetto. I “trucchi” di camera oscura erano tratti distintivi di un fotografo, oggi un plug-in di Photoshop o altri software possono replicare “esattamente” un processo di sviluppo digitale utilizzato da un determinato autore, facendogli così perdere unicità. Chi non ha sentito parlare dell’effetto “Dave Hill” o dell’effetto “Dragan”? Basta cercare su youtube e i tutorial si sprecano.
Se una cosa è replicabile, si sa, non è più arte. Eppure ai posteri il “tocco” tipico delle immagini di questi anni apparirà come una moda. Personalmente vedo nella bella foto di Hansen il tipico “tuning” di questi anni, mi chiedo anche se non ne sia artefice qualcun altro, uno studio, un grafico di redazione. Anzi oggi che siamo tutti free-lance, più che di redazione, un grafico di qualche studio a pagamento. A pensarci bene, questa foto (come altre) è praticamente monocromatica, è un bianco e nero che però non vuol esserlo, con una nota di colore che di per sé suscita delle emozioni (generalmente un viraggio o verso tinte seppia o verso il blu, tipicamente da bilanciamento del bianco o da filtro) ma senza la distrazione indotta dai colori (ad esempio il blu elettrico della tuta indossata dall’uomo a destra).
Possiamo gridare allo scandalo o alla mistificazione? Il colore della tuta è fondamentale per la comprensione della storia narrata dalla foto? Ci muoviamo allora in un ambito dove le scelte non sono più dettate dal “giusto o sbagliato” ma anche e soprattutto dalle intenzioni dell’autore, nella migliore delle ipotesi, o più probabilmente di una redazione. Sono convinto che molti miei colleghi oggi si uniformino a un certo gusto per due ragioni di fondo: moda e opportunità. Non me la sento di dargli torto. Moda perché il gusto corrente predilige e quindi richiede immagini con questo tipo di tuning. Opportunità perché se non ti adegui è possibile che le tue foto siano penalizzate rispetto ad altre, e la concorrenza oggi si sa è spietata, perché il photoeditor di turno (sempre che ce ne sia uno nelle redazioni) a sua volta è condizionato dal gusto corrente. A meno che tu non sia un mostro sacro della fotografia che fa scelte totalmente autonome, uniformarsi alla moda è necessario.
Forse, in conclusione, se il fotoritocco in un certo senso si standardizza, la cosa non è poi così da temere. Magari in questo modo sono le foto a parlare più che il tuning. Forse che in bianco e nero le foto erano/sono tutte uguali?
Foto che ha suscitato curiosità negli allievi per la postproduzione che si supponeva molto elaborata
Personalmente, negli anni sto tornando sempre più verso il bianco e nero, vero e proprio. Il colore mi disturba, talvolta è protagonista di un’immagine, come nelle note fotografie di Steve McCurry ma il più delle volte distrae. Sta al fotografo non introdurre colori invadenti nelle sue foto, ma oggettivamente, pensando alla foto di Hansen, avrebbe dovuto chiedere alle persone in lutto di indossare abiti meno colorati? Una riflessione sul colore non può certo ridursi a queste poche righe. Mi sento di aggiungere che ormai note di colore forti e nette sono un espediente per catturare l’attenzione di un gusto più di massa. Così facendo tuttavia si “distrae” l’osservatore e non lo si induce a percepire un’immagine nella sua essenza, di forma, spazio, luce.
Perché il rischio è questo, che se una foto appare ricca di intensità anche grafica, è opinione corrente che sicuramente la postproduzione l’ha resa tale. In un certo senso si rischia oggi che un bravo fotografo che ha scelto finemente momento, composizione, luce, ecc. sia ritenuto tutt’al più un bravo “fotoritoccatore”. Personalmente e per lavoro io devo dialogare anche con chi è inesperto di fotografia (e mi piace farlo) e devo tener conto di ciò che una foto suscita. Una forte dose di contrasto, che si sa regge bene solo su foto che sono perfette dal punto di vista di luce ed esposizione, può apparire come un fotoritocco elaborato e complicato, tale da far pensare: “bella…che cosa hai fatto in photoshop?”. Una sensazione che sarebbe bene non suscitare.
Potrà sembrare incredibile ma questa foto dentro photoshop non è nemmeno passata. Il lavoro c’è, tutto sul RAW, ma quel che è stato aggiustato finemente è il dosaggio di luminosità e di contrasti, niente è stato introdotto o alterato. La foto a colori da cui “partiva” (nel RAW i dati sul colore sono sempre presenti anche se abbiamo utilizzato un effetto monocromo nella fotocamera) è questa, un’immagine a colori sì ma, per meglio dire, l’immagine come era prima dell’ultimo intervento di passaggio al bianco e nero.
La fotografia a colori lascia intravedere meglio come gli interventi correttivi siano avvenuti esclusivamente per un’ottimizzazione della luce, dove ricerco una curva tipicamente non digitale, con maggiore contrasto sui mezzitoni e compressione delle alteluci. Il digitale richiede una ottimizzazione di questo tipo perché registra la gamma tonale in maniera lineare, a differenza delle pellicole che hanno ciascuna una sua curva caratteristica.
Il colore qui è importante per trasmetterci l’atmosfera, la luce calda sul metallo, trattandosi di foto fatte all’alba, il contrasto cromatico tra questa e il blu dello sfondo o delle tute degli operai. Tutto questo non si perde interamente nel viraggio al bianco e nero, perché i contrasti cromatici si trasformano in contrasti di luce. Uno scatto di partenza con passaggi tonali puliti rende immagini in bianco e nero altrettanto nette. Direi che anzi il bianco e nero rende visibili maggiormente i passaggi di luce altrimenti camuffati dal colore (rivedere la foto in B&N).
Spero che da questa trattazione evidentemente parziale e solo abbozzata nasca una riflessione ulteriore, non ho la pretesa di possedere la verità su un argomento così controverso ma spero di aver fatto un po’ di luce partendo dalla mia personale esperienza di fotografo alle prese continuamente con dubbi amletici circa la post-produzione.
Può tornare utile leggere anche questi articoli che ho scritto sul medesimo argomento, partendo da spunti differenti.
FOTORITOCCO E POSTPRODUZIONE: DOVE E' IL LIMITE?
LA CURVA DI CONTRASTO CARATTERISTICA: PELLICOLA E DIGITALE

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Buona discussione…
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