lunedì 11 aprile 2016
Timeless Persia e SOKUT, due reportage sull’Iran stanno per diventare libri fotografici
Due progetti di documentazione fotografica sull’Iran sono in procinto di diventare libri fotografici, grazie al contributo di crowdfunding, in scadenza tra pochi giorni. Per partecipare visitare il link http://www.kisskissbankbank.com/it/projects/sokut-timeless-persia
Scrivono i due autori, Davide Palmisano e Manuela Marchetti:
Siamo andati in IRAN nel 2015 con il progetto di documentare questo grande Paese, in procinto di uscire da oltre un decennio di isolamento causato dalle sanzioni internazionali, e da quella avventura è nata l'idea di realizzare due libri fotografici, per mostrare a tutti le suggestioni che questo luogo ci ha trasmesso.
Timeless Persia e SOKUT rappresentano per ciascuno di noi il primo libro fotografico.
L'idea è nata dal forte desiderio di lasciare traccia di un Iran che forse non ci sarà più. Siamo arrivati in Iran nella primavera del 2015 poco prima dello scoppio della “bolla mediatica” dell' #irandeal, prima degli accordi di Losanna del giugno 2015 da cui ha preso il via un processo di cambiamento tanto importante per la vita degli iraniani quanto inarrestabile e tumultuoso.
Attraversando l'Iran ci siamo accorti che c'è una bellezza antica che potrebbe sparire travolta dagli eventi. Una bellezza a cui ci siamo abbandonati, suggestionati da questo paese sospeso fra il passato e il presente, che non abbiamo voluto semplicemente descrivere ma raccontare attraverso le sensazioni.
Un viaggio nel "silenzio" come realtà che parla, come luogo dove trova espressione il linguaggio delle emozioni, ma anche un viaggio in un paese "senza tempo", dove passato presente e futuro si intrecciano.
Timeless Persia
è un racconto fotografico che esprime i contrasti e le contraddizioni dell'Iran e al tempo stesso racconto di viaggio in chiave personale. Il menabò di Timeless Persia è già stato selezionato con il terzo premio al concorso PhotoEbook, indetto dalla casa editrice Emuse.
(Timeless Persia - © davide_palmisano)
SOKUT
Le immagini di SOKUT (titolo, che significa "silenzio" in Persiano) penetrano nel terreno dell’intimità riconducendoci al senso collettivo del sacro. Alle immagini si alternano versi tratti dai testi delle celebri poetesse iraniane Forough Farrokhzad e Simin Behbahani.
(SOKUT - © manuela_marchetti)
Link: http://www.kisskissbankbank.com/it/projects/sokut-timeless-persia
martedì 25 novembre 2014
(auto)critica fotografica, ovvero tutto ciò che una foto non dice
Nel 2009 durante un percorso di ricerca fotografica su divere questioni legate alle minoranze etniche, non solo curde, in particolare in Anatolia orientale, ho soggiornato a Istanbul, città assai interessante sotto moltissimi punti di vista, non solo storici o turistici. La storia recente della Turchia, e in particolare le tensioni che la attraversano da sempre tra aspirazione alla modernità, intesa come appartenenza alla cultura Occidentale (basti ricordare l’adozione dell’alfabeto latino all’inizio del ‘900) e le origini asiatiche sempre sentite e anzi rivendicate (tra l’altro il ruolo di Ankara nello scacchiere mediorientale è stato centrale, non fosse altro come base di operazione militari), è particolarmente esemplificabile attraverso immagini che ritraggono le donne in questo paese.
Una cosa che colpisce chiunque visiti Istanbul è notare come ci siano donne vestite all’occidentale e altre totalmente coperte. In maniera assai iconica questo rappresenta la situazione culturale del paese. Ovviamente un’immagine non dice, non illustra, un’immagine allude, richiama, evoca. Assumere che una donna coperta sia di fede islamica è probabile, ma che questa richiami il ruolo della donna difeso da un certo fanatismo religioso è tutt’altra cosa.
La foto che segue è stata concepita avendo parecchie cose in testa, non certo verità, dubbi piuttosto. Ma se dubita troppo il fotografo finisce per non fare il suo mestiere. È chiaro che aldilà delle intenzioni razionali non controlliamo perfettamente ciò che una scena che si presenta agli occhi evoca nella mente, né come venga poi destrutturata e tradotta in un’immagine in quella (magica) frazione di secondo in cui la si concepisce, ma a posteriori possiamo ripercorrere il lavorio dell’inconscio (che spesso si associa a un inconscio collettivo).
Giovane donna per le strade di Taksim, Istanbul
Il discorso è complesso. Come fotografi abbiamo talvolta il controllo editoriale sulle nostre immagini, laddove queste facciano parte di un progetto specifico, ma l’uso che viene fatto delle immagini (nostre e in generale) è del tutto arbitrario, ovvero sfugge al controllo. Ho scelto questa foto perché è paradigmatica, in una giornata dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne, con notizie del premier turco che nel 2014 fa ancora dichiarazioni misogine, è perfetta. Questa foto è nell’archivio di agenzia, qualsiasi testata potrebbe usarla per raccontare qualcosa che va ben oltre le intenzioni del fotografo. Ovvero, quello che la fotografia non dice.
Che cosa dice questa foto? Semplice, una giovane donna con un foulard in testa, ma le dita smaltate (che sia nelle strade del quartiere più moderno di Istanbul lo dice solo la didascalia) cammina da sola circondata da una folla anonima (notare che nessun altro volto appare). La folla è composta da sagome solo maschili. Tutte in ombra. Il volto della ragazza è illuminato, ma triste. Tra queste sagome una si palesa in maniera quasi minacciosa dietro la ragazza, un uomo di una certa età, nascosto dietro di lei, come una figura maschile opprimente. La ragazza è evidentemente pensierosa, quasi triste. Indossa un foulard in testa, segno di non far parte né delle ultramoderne né delle donne più conservatrici (per quanto riguarda il mostrarsi in pubblico). In quanto tale rappresenta benissimo la doppia anima del paese.
La foto non dice altro (a me anzi pare che dica anche troppo). Potrebbe benissimo rappresentare la condizione di parziale, incompleta emancipazione femminile in paesi come la Turchia. Ma il volto pensieroso e triste potrebbe dipendere da ben altro tipo di afflizioni personali. Ovviamente al fotografo questo non importa. Non laddove una foto non sia meramente descrittiva ma porti dei riferimenti, dei significati, che poi possono essere o meno decodificati dal pubblico. Ma che succede se questa foto viene utilizzata con una notizia che ne travisa totalmente i contenuti? Riferita a un contesto che non è quello di Istanbul ad esempio (a tutto quello che abbiamo raccontato sopra). È possibile. Avviene continuamente. E il fotografo non ha alcun controllo a meno che decida di non pubblicare le sue foto se non in regime di totale controllo editoriale (il che praticamente ne uccide il lavoro).
Oggi la fotografia micro-stock sta soppiantando (anzi direi che lo ha già fatto) un certo tipo di immagini “concettuali” di stampo più giornalistico. Se devi pubblicare un articolo sulla violenza di genere, ad esempio, compri a 0,20 centesimi un’immagine realizzata artatamente in studio che ritrae, che so, il volto di una donna che piange, con una mano maschile, e il gioco è fatto. Il cliché è servito. Non serve scomodare un fotogiornalista né un’agenzia. Forse per certi versi è un bene che certe immagini siano ridiventate illustrazioni. Alle origini della fotografia e del giornalismo, questo ruolo era chiarissimo. Prima della fotografia d’azione i giornali usavano illustratori, disegnatori. Poi la fotografia, con l’invenzione dell’otturatore e di strumentazione portatile, ha preso quel ruolo. Di illustrare appunto, didascalicamente, quel che si dice in un articolo. Nell’epoca d’oro del fotogiornalismo il rapporto si è invece invertito, laddove sono le foto a creare notizia e/o significato, liberando la fotografia dal suo vincolo di illustrare, portandola finalmente ad alludere, significare, emozionare.
L’uso che viene fatto delle immagini sfugge al controllo e il problema ormai non riguarda soltanto i professionisti, dato che la stragrande maggioranza delle immagini circola in contesti non editoriali. L’uso improprio delle immagini non è un rischio è una realtà. Come difendersi? Francamente non ne ho la più pallida idea. La sensazione è che ci sia una sorta di ritrosia generale a soffermarsi su immagini che alludono a cose più complesse di quanto nei pochi secondi che dedichiamo alla visione delle fotografie si possa tollerare. Questo fa sì che più facilmente si possa associare un’immagine a qualsiasi cosa, così come avviene nella pubblicità.
In questi giorni passa a tambur battente una presunta pubblicità “progresso” sulle reti nazionali in cui si invita a donare soldi a un fantomatico “progetto amore” (già il titolo stucchevole e capzioso dice tanto), per farlo si utilizza la drammatica fotografia di una donna sfigurata dall’acido. Il messaggio è fraudolento perché associa un dramma documentato dal fotografo e relativo a un tema importante con qualcosa di assai diverso, che cavalca una tendenza mediatica e mira a raccogliere denaro. Mi chiedo se il fotografo lo sa e se pur sapendolo è contento di aver venduto la sua foto. .
© 2015 www.fotobiettivo.it / Marco Palladino
venerdì 24 gennaio 2014
Lo Scempio di Bresson. Fotografia di strada, l’ultima frontiera del marketing fotografico.
Molti anni fa insegnavo Italiano agli adulti nelle università popolari in Germania (eh sì non ho sempre fatto il fotografo per lavoro, una volta era un piacevole e sereno hobby). Ricordo che c’era una frase che ricorreva spesso tra i miei allievi, per rompere il ghiaccio si chiedeva loro perché fossero così interessati all’Italiano e non, che so, al Francese, che studiano pure a scuola, o allo Spagnolo che è parlato in mezzo mondo. La risposta che ricorreva, oltre ai soliti cliché pizza sole e mandolino era questa: “perché è facile”.