lunedì 11 aprile 2016
Timeless Persia e SOKUT, due reportage sull’Iran stanno per diventare libri fotografici
Due progetti di documentazione fotografica sull’Iran sono in procinto di diventare libri fotografici, grazie al contributo di crowdfunding, in scadenza tra pochi giorni. Per partecipare visitare il link http://www.kisskissbankbank.com/it/projects/sokut-timeless-persia
Scrivono i due autori, Davide Palmisano e Manuela Marchetti:
Siamo andati in IRAN nel 2015 con il progetto di documentare questo grande Paese, in procinto di uscire da oltre un decennio di isolamento causato dalle sanzioni internazionali, e da quella avventura è nata l'idea di realizzare due libri fotografici, per mostrare a tutti le suggestioni che questo luogo ci ha trasmesso.
Timeless Persia e SOKUT rappresentano per ciascuno di noi il primo libro fotografico.
L'idea è nata dal forte desiderio di lasciare traccia di un Iran che forse non ci sarà più. Siamo arrivati in Iran nella primavera del 2015 poco prima dello scoppio della “bolla mediatica” dell' #irandeal, prima degli accordi di Losanna del giugno 2015 da cui ha preso il via un processo di cambiamento tanto importante per la vita degli iraniani quanto inarrestabile e tumultuoso.
Attraversando l'Iran ci siamo accorti che c'è una bellezza antica che potrebbe sparire travolta dagli eventi. Una bellezza a cui ci siamo abbandonati, suggestionati da questo paese sospeso fra il passato e il presente, che non abbiamo voluto semplicemente descrivere ma raccontare attraverso le sensazioni.
Un viaggio nel "silenzio" come realtà che parla, come luogo dove trova espressione il linguaggio delle emozioni, ma anche un viaggio in un paese "senza tempo", dove passato presente e futuro si intrecciano.
Timeless Persia
è un racconto fotografico che esprime i contrasti e le contraddizioni dell'Iran e al tempo stesso racconto di viaggio in chiave personale. Il menabò di Timeless Persia è già stato selezionato con il terzo premio al concorso PhotoEbook, indetto dalla casa editrice Emuse.
(Timeless Persia - © davide_palmisano)
SOKUT
Le immagini di SOKUT (titolo, che significa "silenzio" in Persiano) penetrano nel terreno dell’intimità riconducendoci al senso collettivo del sacro. Alle immagini si alternano versi tratti dai testi delle celebri poetesse iraniane Forough Farrokhzad e Simin Behbahani.
(SOKUT - © manuela_marchetti)
Link: http://www.kisskissbankbank.com/it/projects/sokut-timeless-persia
venerdì 18 settembre 2015
Storie #2/2 – Samlor. Un reportage di Claudio Iacono
«Siamo rimasti circa un centinaio qui a Chiang Mai a guidare i Samlor e siamo ormai tutti molto vecchi e malandati. La città si è ingrandita enormemente negli anni e il traffico è tremendo così come anche l'inquinamento. Pedalo tutto il giorno tra vecchi camion e miliardi di motorini che rendono l'aria irrespirabile»
mercoledì 1 luglio 2015
Mostra fotografica: “Let us make guns shoot candies” - Syrian Refugee Children in Jordan
“Facciamo pistole che sparino caramelle”, I bambini rifugiati siriani in Giordania
Mostra fotografica sui bambini siriani rifugiati in Giordania, di veronica Croccia
Quest’anno il Festival di Musicastrada presenta un’interessantissima mostra fotografica sui bambini siriani rifugiati in Giordania che accompagnerà tutte le date del festival mostrando al pubblico quegli innocenti volti, non troppo distanti da noi, che hanno sulla loro pelle e sulla loro anima le cicatrici di una crisi umanitaria che ha il triste primato di essere considerata la più grave del nostro tempo.
La mostra propone 30 scatti stampati su pannelli delle dimensioni 50x70 ed esposti in modo "nomade" come nomade è anche la situazione dei bambini che vivono nelle ITSs in Giordania. La maggior parte delle foto è stata scattata durante le attività di Intersos nelle ITSs vicino Irbid, altre nel campo di Za'atari.
Scrive l’autrice: «Se le parole potessero anche solo minimamente racchiudere tutto quello che ho provato visitando queste realtà allora le userei. Ma per spiegare quello che si sente in situazioni come queste ogni aggettivo è superfluo, ogni tentativo di spiegare inutile, minimizzante. L’unica cosa che posso fare è mostrare a voi quello che la mia macchina fotografica ha catturato durante quei giorni, immagini filtrate attraverso i miei occhi e il mio cuore.
Un qualcosa di forte si è acceso in me in quei luoghi, qualcosa di reale, puro, innocente, frammisto a profonda commozione e rispetto per chi, pur avendo perduto tutto, ha ancora la forza per ridere e il coraggio di sperare.»
giovedì 21 maggio 2015
Hidden Identity - The Italian-Chinese community in Prato
Un evento imperdibile alla Casa dei Raccontastorie di Shoot4Change a Roma
Venerdì 22 maggio Francesco Arese Visconti (fotografo e accademico della Webster University di Ginevra) presenta i suoi ultimi lavori sulla comunità Italo-Cinese di Prato: il libro "We, Prato - Youth in transformation" e il lavoro "Hidden Identity - The Italian-Chinese community in Prato."
Il tema della seconda generazione cinese in Italia non è ancora stato approfondito e il lavoro fotografico e di ricerca di Francesco è un'occasione rara per conoscerlo.
Agli scatti si accompagna una ricerca psicosociale che si compone di interviste sul senso di appartenenza e di identità delle nuove generazioni, e di un reportage video.
Il progetto, da cui è nato anche l'omonimo libro edito dalla Edizioni Sui, è stato in mostra a Ginevra per poi rientrare nel filone di ricerca sociale della Webster University - della quale Arese Visconti è docente - che porta il nome di 'Hidden Identity Project – The Italian-Chinese community in Prato'.
We Prato - Hidden Identity Project/
Presentazione a Roma c/o Shoot4Change/
Venerdì 22 maggio dalle ore 17
via del Mandrione 105, 00181 Roma
Ingresso libero
lunedì 16 marzo 2015
In Toscana la mostra fotografica che presenta immagini dal progetto "Elegance and Dignity - Stories from India
"Gli umili, gli sfruttati, gli ultimi sono portatori di una grande dignità. Essi incarnano il senso pieno di questa parola perché vivono in una realtà dove la dignità non si ottiene facilmente"
In occasione della Festa Dei Camminanti (www.camminanti.it) Marco Palladino presenta un racconto sull’India che passa attraverso un dibattito, un visual show, un mostra fotografica e un libro fotografico di 172 pagine
La mostra fotografica presenta immagini dal progetto "Elegance and Dignity - Stories from India" confluito in un libro edito da Dalia Edizioni che descrive fotograficamente uno dei paesi più importanti nella scena mondiale, la cui economia è ormai al pari di quella cinese. In particolare, le relazioni tra lo sviluppo industriale recente e la tradizione agricola, sollevando quesiti legati alla preservazione del territorio e delle minoranze, alla filiera e al processo di smaltimento dei rifiuti del cosiddetto primo mondo e al conseguente inquinamento ambientale incontrollato (emblematico il reportage sul cimitero delle navi di Alang).
TEATRO VERDI – VICOPISANO
dal 27 marzo al 05 aprile
(inaugurazione 27 marzo ore 18,00)
info: www.vicone.it
Orari Mostra:
Venerdi 27 marzo : ore 18 presentazione libro e inaugurazione mostra;
Sabato 28 marzo: dalle 11-13 e dalle 15.30-19
Domenica 29 marzo: 11- 13 e dalle 15.30-19
da Lunedi 30 a Giovedi 2 aprile: dalle 16.30-19
Venerdi 3 aprile: dalle 16.30-19
Sabato 4 aprile: dalle 11-13 e dalle 15.30-19
Domenica 5 aprile: dalle 16-19
martedì 24 febbraio 2015
Lo zen della fotografia in viaggio: fotografare con gli occhi, ricordare coi sensi.
Prendo spunto da questo interessante articolo di Leonello Bertolucci su Il Fatto Quotidiano, introduce una riflessione che fa parte dei miei pensieri da diverso tempo. Ho deciso di scrivere un articolo per approfondire (potenza dell’ipertesto!) oltre il piano soggettivo che poi non è mai meramente soggettivo ma sempre epistemologico ed è una riflessione che viene fatta non a caso da molti fotografi della vecchia guardia.
La fotografia è cambiata in tanti modi ma non nella sostanza. Quello che è cambiato davvero è il suo pubblico, la sua diffusione, il suo motivo d’essere, il senso del fotografare. L’articolo citato fa notare giustamente che per chi si sente fotografo (e non turista dotato di fotocamera), “fotografare – come asseriva Henri Cartier-Bresson – è un modo di vivere; dunque se vivere e fotografare sono inscindibili e si alimentano a vicenda, il tentativo di separarli appare eretico”.
Questa frattura è una cosa che i fotografi sentono, perché è avvenuta e certificata. L’avvento della fotografia di massa, e la diffusione di massa della fotografia, che non è la stessa cosa (la rivoluzione digitale è stato soprattutto questo) ha letteralmente scippato interi settori della fotografia professionale per relegarli (dal punto di vista del fotografo che si sente tale) oppure donarli (se vediamo il processo come una “democrazia dell’immagine”) a chiunque sia dotato di fotocamera e un minimo di tecnica. Sia chiaro che io non prendo posizione, non sono nessuno per farlo e poi chiunque lo faccia è un pazzo, il processo è inarrestabile, ma mi limito da sempre nei miei articoli a notare i pro e i contro dei fenomeni.
Parlando di fotografia di viaggio, anche il turista ha la facoltà di immortalare immagini di ottima fattura che in linea di massima restano alla superficie delle cose. Mai come oggi in un mondo così globalizzato e trasversale nell’economia e nel mainstream culturale, viaggiare significa andare a scoprire angoli di diversità sempre più nascosti alla superficie, che siano sotto casa o all’altro capo del mondo non fa differenza. Mi sorprende parecchio quando ad esempio vengo contattato da indiani incuriositi dal mio lavoro sulle classi povere dell’India. Una realtà di “casa loro” che a quanto pare ignorano. Così come un fotoreporter indiano potrebbe aver raccontato una realtà nascosta ai nostri occhi, proprio sotto casa nostra, e conoscerla meglio di noi che qui viviamo.
La fotografia di viaggio, democratica o relegata che sia, non è più appannaggio del fotografo professionista, il che la espone a vantaggi e svantaggi. I vantaggi sono presto detti, una quantità enorme di immagini di ottima fattura e a costo zero. Gli svantaggi sono tutti a carico del senso del fotografare, dell’annoso problema dei cliché fotografici, della difficoltà di leggere in un’immagine qualcosa oltre lo stereotipo che aleggia nella mente del turista. O meglio, che data l’invasione di tante immagini, è più difficile scovare l’originalità del vedere fotografico. Eppure all’occorrenza anche il fotografo occasionale può trasformarsi in reporter e documentare quello che vede magari per caso. Non che succeda spesso, in fondo rispetto alla quantità di strumenti fotografici in viaggio è sorprendente quanto siano pochi i materiali documentali. Ma qui parliamo dell’opposto, ovvero del fotogafo che come dice Bertolucci è sempre tale e che all’occorrenza vuole immortalare qualcosa che prescinde dall’incarico o progetto.
Che cosa è successo in questi anni? Semplice, il fotografo professionista ha smesso di fare le foto che chiamerei “fuori progetto”, ovvero quelle immagini che il sentirsi fotografo fa sì che si cerchino sempre, anche solo per una mera ricerca estetica. Perché essere fotografo non ti abbandona mai. Ma oggi che lo voglia o no, con una rete che straborda di belle foto a costo zero che coprono ogni angolo del mondo, un fotografo che pure lo è sempre, avrebbe motivo di fare foto svincolate da un progetto? Ecco un esempio, la bellissima foto di Larry Burrows, noto fotoreporter che ha documentato la guerra in Vietnam e che certamente non lavorava come fotografo di viaggio se non occasionalmente, per la rivista Life, perché appunto all’epoca un certo tipo di fotografia non era alla portata di chiunque.
Non solo Life (che tra l’altro ha chiuso, almeno nella versione cartacea, proprio perché una simile rivista ha perso certe ragioni d’essere) non commissionerebbe più queste foto ai suoi fotoreporter, probabilmente anche il fotografo, come andiamo dicendo dall’inizio, non sente più il bisogno di farle. Chi fotografa per il mondo ha bisogno di una motivazione esterna, non gli basta portarsi a casa un ricordo, desidera portare delle testimonianze, filtrate e concettualizzate in modo studiato, rigoroso e unico, anche se slegate da un discorso organizzato, o progetto che dir si voglia. Per quale altra ragione se non donarla al mondo dovrei creare un’immagine? Il principio di fondo accomuna tutti, è un’esigenza umana condivisa tanto dal dilettante quanto dal professionista (categorie ormai fluide), il che spiega perché i fotoamatori siano tanto pronti a regalare le proprie foto a giornali e riviste, a inondare il web delle proprie creature, senza altro motivo se non il piacere di farle vedere, ma è proprio il professionista a rendersi maggiormente conto del ruolo della fotografia e a fare scelte in totale controtendenza. In un certo senso fa parte della maturità anche stilistica, si arriva appunto allo zen della fotografia. Si fotografa con gli occhi, si continua ad esercitare il proprio sentire di fotografo, irrinunciabile, ma si sa che certe fotografie ormai non hanno più ragione di esistere. Se ne decreta il lutto pubblico. Ma se ne trattiene la memoria e il senso. Si fotografa con gli occhi, si ricorda con tutti i sensi.
D’altronde il fotogiornalismo contemporaneo ha abbandonato già da un po’ certi generi. O si occupa di eventi di cronaca, politica, guerre, ecc. che sono sempre nell’agenda di ogni redazione, oppure è alla ricerca continua di storie minori ma dense di umanità, di spunti di riflessione sull’uomo che prescindono dalle differenze culturali, dai confini geografici ed etnici. Storie piccole ma universali, storie in cui lo spettatore può riconoscerci. È qualcosa che comporta da una parte un avvicinamento importantissimo, piccole storie significa che l’altrove ci è vicino, non alieno. Parlando di reportage ad esempio, la vita quotidiana di chi soffre dall’altra parte del mondo è forse più poetica e umanamente coinvolgente (ci accomuna) che la sua sofferenza ritratta e spiattellata a toni forti, che invece spinge lo spettatore verso un distanziamento. Ma c’è anche una certa dose di narcisismo in parte del pubblico (è una mia modesta opinione), che deve sentirsi rispecchiato nelle storie che vede fotografate e non tollera differenze di identità, religione, pensiero, insomma la diversità. Due rovesci della stessa medaglia. In ogni caso, l’altrove è demodè.
In questo senso secondo me troppo frettolosamente è stata relegata la fotografia di viaggio a qualcosa di appartenente a un mondo che non esiste più. La globalizzazione c’è, è vero, ma le realtà etniche e culturali permangono, aldilà di internet, connessioni virtuali ed economie di grande scala. Forse non basta più semplicemente vederle e fotografare, forse è necessario raccontarle. In questo senso solo un progetto rigoroso può restituire giustizia e conoscenza, anche laddove il pubblico è ormai disinteressato all’altrove che viene percepito come a portata di un volo lowcost. L’altrove esiste, ma è sempre meno esemplificabile da una fotografia. Nessuno si stupirebbe di un’immagine del Taj Mahal ai giorni nostri e dubito che Burrows vorrebbe ancora fare questa fotografia. E poi, a ben guardarla…il cliché della cornice, la luna sopra (è photoshoppata?), ne abbiamo viste troppe di foto così, signor Burrows. Quei neri così chiusi, perché non si iscrive a un corso di fotoritocco?
© 2015 Marco Palladino – www.fotobiettivo.it
mercoledì 10 dicembre 2014
Stories from India di Marco Palladino - MOSTRA FOTOGRAFICA in una serata dedicata all’India
Domenica 14 in occasione di una bellissima iniziativa dedicata all'India dall' Associazione Shiva Mahadeva nello splendido locale Shari Vari in via di Torre Argentina 78 a Roma, verranno presentati tre dei reportage che compongono il progetto “Elegance and Dignity – Stories from India” di Marco Palladino, con allestimento foto e filmati video.
La serata di presentazione si svolgerà Domenica 14 Dicembre presso lo SHARI VARI a partire dalle 19 e oltre la MOSTRA FOTOGRAFICA di Marco Palladino si terranno:
SPETTACOLO DI DANZA Classica dell’india, stile Odissi. Marialuisa Sales
MUSICA ”Mandala" live duo di Handpan (hang), Andrea B...alda e Alessio de Simone
Partecipa Tu, e porta un Amico, l’ ingresso all’ apericena sarà di 15 Euro , parte del ricavato della serata ci aiuterà a portare un sorriso in India.
CONDUCIMI DALL’ IRREALE AL REALE, DALL’ OSCURITA’ ALLA LUCE, DALLA MORTE ALL ’IMMORTALITA’.
(BRIHADARANYAKA UPANISHAD) 1 . 3 . 28.
Shari Vari via di Torre Argentina, 78 00186 Roma www.sharivari.it
L’ Associazione SHIVA MAHADEVA nasce da un atto di amore nei confronti di un paese straordinario, affascinante, terribile ed amorevole nello stesso tempo, l’India.
L’obiettivo fondamentale che l’Associazione SHIVA MAHADEVA si propone di perseguire è quello di far conoscere in tutte le sue sfaccettature la millenaria cultura indiana, sostenendola, creando un ponte tra l’ Italia e l’India.
martedì 25 novembre 2014
(auto)critica fotografica, ovvero tutto ciò che una foto non dice
Nel 2009 durante un percorso di ricerca fotografica su divere questioni legate alle minoranze etniche, non solo curde, in particolare in Anatolia orientale, ho soggiornato a Istanbul, città assai interessante sotto moltissimi punti di vista, non solo storici o turistici. La storia recente della Turchia, e in particolare le tensioni che la attraversano da sempre tra aspirazione alla modernità, intesa come appartenenza alla cultura Occidentale (basti ricordare l’adozione dell’alfabeto latino all’inizio del ‘900) e le origini asiatiche sempre sentite e anzi rivendicate (tra l’altro il ruolo di Ankara nello scacchiere mediorientale è stato centrale, non fosse altro come base di operazione militari), è particolarmente esemplificabile attraverso immagini che ritraggono le donne in questo paese.
Una cosa che colpisce chiunque visiti Istanbul è notare come ci siano donne vestite all’occidentale e altre totalmente coperte. In maniera assai iconica questo rappresenta la situazione culturale del paese. Ovviamente un’immagine non dice, non illustra, un’immagine allude, richiama, evoca. Assumere che una donna coperta sia di fede islamica è probabile, ma che questa richiami il ruolo della donna difeso da un certo fanatismo religioso è tutt’altra cosa.
La foto che segue è stata concepita avendo parecchie cose in testa, non certo verità, dubbi piuttosto. Ma se dubita troppo il fotografo finisce per non fare il suo mestiere. È chiaro che aldilà delle intenzioni razionali non controlliamo perfettamente ciò che una scena che si presenta agli occhi evoca nella mente, né come venga poi destrutturata e tradotta in un’immagine in quella (magica) frazione di secondo in cui la si concepisce, ma a posteriori possiamo ripercorrere il lavorio dell’inconscio (che spesso si associa a un inconscio collettivo).
Giovane donna per le strade di Taksim, Istanbul
Il discorso è complesso. Come fotografi abbiamo talvolta il controllo editoriale sulle nostre immagini, laddove queste facciano parte di un progetto specifico, ma l’uso che viene fatto delle immagini (nostre e in generale) è del tutto arbitrario, ovvero sfugge al controllo. Ho scelto questa foto perché è paradigmatica, in una giornata dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne, con notizie del premier turco che nel 2014 fa ancora dichiarazioni misogine, è perfetta. Questa foto è nell’archivio di agenzia, qualsiasi testata potrebbe usarla per raccontare qualcosa che va ben oltre le intenzioni del fotografo. Ovvero, quello che la fotografia non dice.
Che cosa dice questa foto? Semplice, una giovane donna con un foulard in testa, ma le dita smaltate (che sia nelle strade del quartiere più moderno di Istanbul lo dice solo la didascalia) cammina da sola circondata da una folla anonima (notare che nessun altro volto appare). La folla è composta da sagome solo maschili. Tutte in ombra. Il volto della ragazza è illuminato, ma triste. Tra queste sagome una si palesa in maniera quasi minacciosa dietro la ragazza, un uomo di una certa età, nascosto dietro di lei, come una figura maschile opprimente. La ragazza è evidentemente pensierosa, quasi triste. Indossa un foulard in testa, segno di non far parte né delle ultramoderne né delle donne più conservatrici (per quanto riguarda il mostrarsi in pubblico). In quanto tale rappresenta benissimo la doppia anima del paese.
La foto non dice altro (a me anzi pare che dica anche troppo). Potrebbe benissimo rappresentare la condizione di parziale, incompleta emancipazione femminile in paesi come la Turchia. Ma il volto pensieroso e triste potrebbe dipendere da ben altro tipo di afflizioni personali. Ovviamente al fotografo questo non importa. Non laddove una foto non sia meramente descrittiva ma porti dei riferimenti, dei significati, che poi possono essere o meno decodificati dal pubblico. Ma che succede se questa foto viene utilizzata con una notizia che ne travisa totalmente i contenuti? Riferita a un contesto che non è quello di Istanbul ad esempio (a tutto quello che abbiamo raccontato sopra). È possibile. Avviene continuamente. E il fotografo non ha alcun controllo a meno che decida di non pubblicare le sue foto se non in regime di totale controllo editoriale (il che praticamente ne uccide il lavoro).
Oggi la fotografia micro-stock sta soppiantando (anzi direi che lo ha già fatto) un certo tipo di immagini “concettuali” di stampo più giornalistico. Se devi pubblicare un articolo sulla violenza di genere, ad esempio, compri a 0,20 centesimi un’immagine realizzata artatamente in studio che ritrae, che so, il volto di una donna che piange, con una mano maschile, e il gioco è fatto. Il cliché è servito. Non serve scomodare un fotogiornalista né un’agenzia. Forse per certi versi è un bene che certe immagini siano ridiventate illustrazioni. Alle origini della fotografia e del giornalismo, questo ruolo era chiarissimo. Prima della fotografia d’azione i giornali usavano illustratori, disegnatori. Poi la fotografia, con l’invenzione dell’otturatore e di strumentazione portatile, ha preso quel ruolo. Di illustrare appunto, didascalicamente, quel che si dice in un articolo. Nell’epoca d’oro del fotogiornalismo il rapporto si è invece invertito, laddove sono le foto a creare notizia e/o significato, liberando la fotografia dal suo vincolo di illustrare, portandola finalmente ad alludere, significare, emozionare.
L’uso che viene fatto delle immagini sfugge al controllo e il problema ormai non riguarda soltanto i professionisti, dato che la stragrande maggioranza delle immagini circola in contesti non editoriali. L’uso improprio delle immagini non è un rischio è una realtà. Come difendersi? Francamente non ne ho la più pallida idea. La sensazione è che ci sia una sorta di ritrosia generale a soffermarsi su immagini che alludono a cose più complesse di quanto nei pochi secondi che dedichiamo alla visione delle fotografie si possa tollerare. Questo fa sì che più facilmente si possa associare un’immagine a qualsiasi cosa, così come avviene nella pubblicità.
In questi giorni passa a tambur battente una presunta pubblicità “progresso” sulle reti nazionali in cui si invita a donare soldi a un fantomatico “progetto amore” (già il titolo stucchevole e capzioso dice tanto), per farlo si utilizza la drammatica fotografia di una donna sfigurata dall’acido. Il messaggio è fraudolento perché associa un dramma documentato dal fotografo e relativo a un tema importante con qualcosa di assai diverso, che cavalca una tendenza mediatica e mira a raccogliere denaro. Mi chiedo se il fotografo lo sa e se pur sapendolo è contento di aver venduto la sua foto. .
© 2015 www.fotobiettivo.it / Marco Palladino
sabato 1 marzo 2014
Le sacre montagne del Nord. Wutai Shan. Cina
(estratto dal libro: La Terra Sospesa, storia di un viaggio in Cina, 297pp. Roma 2002)
lunedì 29 luglio 2013
giovedì 22 novembre 2012
La Cina moderna e il rischio ecologico. Indagine e reportage sul paese-continente protagonista della nuova globalizzazione mercantile.
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domenica 18 novembre 2012
Ladakh: un piccolo baluardo dell’ultimo Tibet. Reportage etnografico e indagine sui mutamenti di una società ecosostenibile
Testo e foto di Marco Palladino
(da Modus Vivendi nr.50 Dicembre 2003)>>>ENGLISH TEXT BELOW<<<
venerdì 28 settembre 2012
Ritratto di famiglia – società matriarcale araba a Midyat, Anatolia Orientale
di Marco Palladino
In una città del Kurdistan , Midyat, nei confini sud-orientali della Turchia, si trovano le vestigia di una comunità cristiana aramaica fino a qualche decennio fa molto florida. E’ un luogo crocevia di genti e culture da diversi secoli, dove solo recentemente gli ultimi afflussi di popoli di cultura araba hanno soppiantato (spesso con la forza) le comunità cristiane.