martedì 4 agosto 2015
WORKSHOP DI FOTOGRAFIA NEL PARCO NAZIONALE D’ABRUZZO (PAESAGGIO, REPORTAGE, NOTTURNA)
I MERCOLEDI FOTOGRAFICI NEL PARCO NAZIONALE D’ABRUZZO
By Fotobiettivo & Ecotur
Ogni mercoledì di Agosto è dedicato alla scoperta fotografica del territorio del Parco e al contempo si impareranno sul campo i segreti di diverse tecniche e generi fotografici.
Un pomeriggio e una serata dedicati alla fotografia di reportage, alla fotografia paesaggistica e alla fotografia notturna. Insieme a Marco Palladino (www.marcopalladino.net), fotografo professionista, e a una guida turistica dell’Ecotur, si andrà alla ricerca degli scorci più suggestivi del Parco Nazionale d’Abruzzo.
Visiteremo la splendida valle del Sagittario, il borgo storico di Scanno, da sempre meta di fotografi e pittori, fotograferemo i suoi abitanti, i suggestivi vicoli, i costumi tradizionali, le botteghe artigiane, il lago di Scanno al tramonto e per concludere ci dedicheremo alla fotografia nell’ora blu e in notturna.
In caso i tempi lo consentano (a discrezione del docente) visiteremo anche Frattura Vecchia oppure l’Eremo di San Domenico
Si tratta di un vero e proprio corso di fotografia sul campo, si viene seguiti individualmente dal docente ed è quindi adatto a qualsiasi livello di conoscenza, dal principiante al fotografo più esperto. Per chi lo vorrà è previsto un incontro successivo col docente per la visione delle foto e la postproduzione.
Attrezzatura fotografica consigliata (non obbligatoria):
* Reflex o altra fotocamera digitale con impostazioni manuali
* Ottiche dedicate ai diversi generi: un grandangolo per paesaggi e reportage, un obiettivo da ritratto, possibilmente un obiettivo luminoso per gli interni
* Treppiede da impiegare per la fotografia notturna
* Filtro polarizzatore e filtro degradante
* Comando di scatto a distanza
Il docente farà utilizzare la sua attrezzatura professionale a turno
É consigliato portare con sé:
* Cena al sacco
* Scarpe da trekking o ginnastica comode
* Felpa e giubbino per la sera
Tempistica:
14.30 *Ritrovo presso l’Ecotur di Pescasseroli e partenza per scanno con auto condivise
15.30 – 18.00 *Visita di Scanno e delle botteghe artigiane, reportage
18.00 – 19.30 *Fotografia paesaggistica sul lago di Scanno
19.30 – 22.00 *Fotografia in ora blu e notturna
22.00 *Rientro a Pescasseroli
Date in calendario:
*19 Agosto
*26 Agosto
Costi (non comprendono spostamenti e pasti, revisione/postproduzione fotografica):
50 eu a persona
(familiari o amici che non partecipano al corso ma solo alla visita guidata: 20 euro)
Numero minimo di partecipanti: 6
Contatti e prenotazioni:
informazioni@ecotur.org
oppure telefonando al numero 0863/912760
N.B. nei giorni dei workshop l’autore è presente anche con la mostra fotografica
“Elegance and Dignity – Stories from india” nella via principale di Civitella Alfedena
giovedì 18 giugno 2015
Fotografare ai concerti live, una fotografia fatta di tecnica e cuore – parte 3
Presentiamo ai lettori di Fotobiettivo una serie di articoli dedicati alla fotografia di concerti. Gabriele Bientinesi, responsabile per la comunicazione e la fotografia al Festival Musicastrada e fondatore della scuola Fotografando, accomunando la sua passione tanto per la musica che per la fotografia, ci apre al mondo della fotografia live con un taglio didatticamente rigoroso e al contempo coinvolgente…
…continua da : Fotografare ai concerti – parte 1
…continua da : Fotografare ai concerti – parte 2
8 - Quando si deve e quando si può... ovvero keep calm & shoot RAW [cit.].
I vantaggi del negativo digitale e della camera chiara..
Il file RAW (trad. grezzo) è la registrazione di tutto quello che è stato recepito dal sensore prima di passare attraverso i filtri della fotocamera. Cose come bilanciamento del bianco, tono colore, ottimizzazione delle luci, riduzione del rumore, contrasto, nitidezza, saturazione, spazio colore, etc, etc...
Giustamente avete acquistato una fotocamera di ultima generazione, pagandola anche parecchi soldini e il minimo che pretendete da lei è che faccia delle foto strepitose, pronte subito e adatte per qualsiasi utilizzo.
E così è, in più di dieci anni di fotografia digitale sensori e processori di immagine hanno fatto passi avanti incredibili e sono in grado di regalare immagini di altissima qualità che spesso non hanno davvero bisogno di nulla... perché passare ore davanti al computer a fare cose che la macchina fa già molto bene da sola?
Vi invito però a riflettere su un po’ di cosette...
Primo: l’algoritmo che processa il file RAW attraverso tutte le regolazione necessarie, dalle luci alla riduzione del rumore, ai colori, alla compressione del file JPEG è iterativo, ovvero deve ripetere la stessa operazione più e più volte per raggiungere il risultato previsto. La potenza e la precisione del calcolo valutativo di un elaboratore “grande” sarà per forza di cose superiore a quella di qualsiasi processore che sta dentro la fotocamera, per il semplice motivo che ha tutto il tempo che vuole a disposizione e non deve restituirvi un’immagine immediata come la macchina.
Secondo: le possibilità di regolazione, in fase di sviluppo, di “camera chiara”, sono infinitamente superiori a quanto può fare la fotocamera, anche solo per una questione di grandezza dello schermo di visualizzazione e di livelli di intervento. Vi faccio un esempio, sulla mia 5D posso regolare la riduzione del rumore di luminanza agli alti ISO su basso standard o alto, su Camera RAW (o su qualsiasi altro software) la regolazione va solitamente da 0 a 100.
Stessa cosa vale per nitidezza, bilanciamento colore, e tutto il resto.
Terzo: il bilanciamento del bianco è un filtro come tutti gli altri, se avete usato il JPEG e scattato una foto blu o magenta potete intervenire fino a un certo punto, se agite sul file RAW è esattamente come aver scattato con un’impostazione di temperatura differente.
Quarto: la gamma dinamica del file RAW è più ampia dell’equivalente JPEG, ciò vi consente prima di tutto di avere un range di intervento sull’esposizione di 1 o 2 stop senza praticamente perdita di qualità, poi di fare regolazioni mirate su una parte dell’immagine senza compromettere il resto. Potete agire separatamente sulle luci o sulle ombre riuscendo a recuperare dettagli impensabili sull’immagine finalizzata.
Quinto, ultimo, e probabilmente più importante: lo sviluppo del file RAW non è fotoritocco! Provate a pensate alla camera chiara come un tempo vi relazionavate sia alla scelta della pellicola che allo sviluppo analogico, con ingranditore, acidi e ammennicoli vari. Lavorando il file RAW non facciamo altro che riproporre in digitale ciò che il professionista faceva in camera oscura, con esposizioni, maschere, bagni e così via. Ogni grande fotografo è stato o ha avuto alle spalle anche un grande stampatore, non si ottengono risultati professionali con una Kodacolor 200 comperata al chioschetto sulla spiaggia e sviluppata e stampata dal tabacchino! Lo sviluppo digitale vi consente prima di tutto un controllo estremamente preciso di ogni parametro, e in più, non dimenticatelo, fa sì che ognuno di noi, anche attraverso questo passaggio, possa imprimere uno stile unico e personale al suo lavoro. Fa si che l’immagine non venga solo da una qualsiasi 5D o D800 o giù di lì, ma anche da un sapiente e accurato lavoro di interpretazione dei dati a disposizione.
Le conclusioni diventano ovvie. Se avete a disposizione il tempo e la voglia di “processare” il file in un secondo momento, a casa o in studio, con calma, otterrete risultati impensabili per la fotocamera.
Unica pecca... nella precedente frase c’era un piccolo “se”... Quel “se avete tempo e voglia” diventa una fondamentale discriminate al vostro lavoro. Prendere un file RAW e non lavorarlo, ovvero fare una conversione diretta sul pc senza nessuna regolazione può restituire un’immagine peggiore della jpg fatta dalla macchina, magari senza nitidezza, con i colori impastati e poco brillante, attenti a non fare questo errore. D’altro canto se siete dei giornalisti che hanno bisogno dell’immagine pronta subito per la pubblicazione, magari non avete proprio il tempo materiale di rivedere e correggere gli scatti. In questi casi diventa fondamentale affidarsi alla propria fotocamera e imparare a conoscerla al meglio, in ogni suo dettaglio, menù e sottomenù, in modo da conoscerne le reazioni a qualsiasi regolazione possiate fare in camera per ottenere il meglio. Ovvio, ogni macchina ha storia a sé e ogni sensore ha le sue peculiarità, così come anche gli obiettivi. Molto dipende dalla sensibilità personale e dagli scopi che vogliamo raggiungere.
Per concludere questo paragrafo torno al titolo...
quando potete, quando avete a disposizione tempo e possibilità, il file RAW vi regala più di un asso nella manica, da poter giocare con calma e riflessività anche tutte le volte che volete.
Se invece dovete consegnare lo scatto subito o non volete saperne di sviluppo e post-produzione vi consiglio un’approfondita lettura del manuale della fotocamera e, soprattutto, tante prove sul campo. Alla fine la legge dei grandi numeri è ancora valida!
9 - L’importanza del segno.
Ovvero il bianco e nero e la fotografia digitale, quando? E soprattutto... Perché?
Premetto che ciò che scriverò in questo paragrafo, a parte alcune considerazioni finali prettamente tecniche, è la mia opinione assolutamente personale, per cui prendetela come tale.
Con l’avvento del digitale ho notato un significativo aumento delle produzioni in bianco e nero, anche da parte di professionisti di alto livello. In particolar modo nella fotografia di spettacolo. Il bianco e nero ha un fascino unico e incredibile che è rimasto immutato, se non addirittura accresciuto, anche dopo l’avvento della fotografia a colori. È evocativo, etereo, lascia alla mente spazi per immaginare e sognare, è in grado di creare un flusso di simbolismo comunicativo anche più complesso di una composizione a colori. Molto spesso, ai nostri occhi, una fotografia in bianco e nero è semplicemente “più bella” di una fotografia a colori.
Il colore però è importante. Ha un significato preciso e concreto sia a livello di composizione che di simbolismo. I colori evocano sensazioni e provocano reazioni.
Il giallo è il colore della luce, racconta pienezza e suscita leggerezza ed espansione. L’azzurro è un colore introspettivo e interiorizzante, aiuta la meditazione e la concentrazione. il verde è il colore della natura, evoca speranza e freschezza, ma può anche essere associato alla paura e all’angoscia (avete presente il detto “verde di terrore”?). Il rosso è un colore aggressivo, rappresenta il sangue e la passione, la collera e il fuoco. L’arancio è un colore energetico, spesso è sinonimo di successo e gloria. Il viola è un colore oscillante e quasi irreale (è composto dai due estremi dello spettro), esprime maestà e fasto, evoca potere e suscita timore... Non voglio fare un trattato di semiologia sul colore e sulla sua percezione, ma è immediato capire che l’argomento è abbastanza importante, in particolar modo nella comunicazione visiva.
Una fotografia, in quanto mezzo di comunicazione, è fatta di tanti particolari messi assieme, colore, forma, segno, posizione, soggetto, sfondo, prospettiva etc., fanno di una composizione il nostro racconto della realtà.
Nel momento in cui decidiamo di rinunciare al colore e al suo significato ci proponiamo un’interpretazione del segno e della luce che non deve aver bisogno di ulteriori informazioni. Oppure, se preferite, scegliamo di dare più importanza alle linee, alle forme, ai contrasti, alle luci e alle ombre che non al colore e alla sua simbologia.
È una scelta. E come tale credo che dovrebbe essere consapevole e ragionata.
Troppo spesso sento dire (e purtroppo vedo fare) “Mmh... non è venuta benissimo, proviamo a portarla in bianco e nero”.
Credo che questo sia un modo perfetto per riuscire a fare una foto con poco senso.
Vi porto due esempi in ambito musicale (o quasi) che è molto facile visualizzare nella mente anche senza averli davanti agli occhi.
Il primo: avete presente la foto fatta da Joel Brodsky a Jim Morrison con lui giovanissimo, a petto nudo, collanina al collo e braccia aperte, immagine del singolo The unknown soldier? È diventata un’icona degli anni ‘60 e ancora oggi è stampata sulle t-shirt di tutto il mondo. Quell’immagine (in bianco e nero) non ha assolutamente bisogno di niente in più della figura di Morrison e della sua espressività.
Il colore non darebbe all’osservatore nessuna informazione in più di quella che già ha.
Il secondo: alla fine degli anni ‘80 (se non ricordo male) Fabrizio de André chiudeva i suoi concerti con la canzone La guerra di Piero. Sulle ultime note e sulle parole finali “ma sono mille papaveri rossi” le luci di accento del retropalco si accendevano di rosso, si alzavano e illuminavano completamente la platea, proprio come se gli spettatori divenissero quel simbolico campo di papaveri rossi.
Chiedetevi: «Avrei scattato quella foto in bianco e nero o a colori?».
A questo punto parliamo un po’ di tecnica... Il sensore registra i colori, non le tonalità di grigio. Tonalità, saturazione e luminanza di ogni singolo pixel dell’immagine in riferimento ai valori RGB (CMY per pochi). La risultante è ovviamente un’immagine a colori, se impostate la macchina in bianco e nero avrete solo uno sviluppo, direttamente in camera, che converte il colore in scala di grigi per valori numerici costanti o desatura completamente tutto (vedere questo articolo).
La conversione digitale da colori a bianco e nero è un processo delicato che può essere eseguito in molti modi e con diverse tecniche. Se fatto con cognizione di causa può regalare risultati eccezionali. Il consiglio che do è quello di scattare sempre a colori ed eseguire la conversione in post produzione, del RAW quando possibile. In questo modo preserverete tutte le tonalità dell’immagine che vi consentiranno una riproduzione in bianco e nero con la massima accuratezza e precisione. Evitate di desaturare semplicemente o convertire in scala di grigio, qualsiasi software vi consente di miscelare i colori, vuoi per dominanti, vuoi per addizione e sottrazione, in modo da agire accuratamente sulle diverse parti dell’immagine. Esistono poi metodi ancora più avanzati (come miscelare i canali RGB con diverse fusioni) e software specifici che sono addirittura in grado di ricreare la grana e la densità della più famose pellicole in bianco e nero.
Un consiglio che dò spesso ai miei studenti quando parliamo di bianco e nero è di provare a scattare in RAW con la macchina impostata su monocromatico, il file sarà ovviamente a colori ma l’anteprima sul display sarà in bianco e nero. Questo consente di valutare subito l’impatto e la funzionalità della composizione a livello di forme, spazi, luci e ombre, e consente di eseguire la conversione in un secondo momento con tutte le attenzioni del caso, possibili solo in sviluppo.
10 - Impariamo ad andare a tempo!
il senso del ritmo in fotografia..
Spesso vedo concerti affollati di fotografi. Spesso tali fotografi (o presunti tali, perdonatemi il cinismo) perdono metà spettacolo a litigare tra di loro per accaparrarsi il posto che credono migliore e che sta utilizzando il loro collega, e un buon quarto a discutere con l’organizzazione per entrare negli spazi transennati e vietati all’accesso (come se solo da li potessero fare la foto della vita). Il resto del tempo sembra che lo passino a provare dodici ottiche e trentasei tecniche diverse. Mi chiedo... Ma il concerto lo vedono? Lo ascoltano? Lo vivono? E soprattutto... Ma qualche foto la fanno?
Se non ascoltate il concerto fotografate solo una piazza con un palco.
Se non osservate l’artista non lo potete ritrarre.
Se vi perdete in calcoli, funzioni della macchina, soluzioni particolari e consigli di ogni amico esperto presente invece di un reportage farete solo un libretto di istruzioni.
Senza avere niente da raccontare non si racconta proprio niente. E per avere qualcosa da dire bisogna vivere. Provare emozioni. Senza quelle farete solamente scatti sterili e fini a se stessi. Magari ben eseguiti ma senza vita.
Che sensazioni potranno mai dare? Cosa potranno raccontare?
Provo a darvi qualche piccolo consiglio, prendeteli come uno scambio di idee tra persone che stanno provando a fare la stessa cosa. Alla fine si tratta di filosofie assolutamente personali..
Arrivate sul posto, guardatevi intorno.
Guardate la piazza, le luci, la gente.
Osservate il palco, gli strumenti che ci sono, i colori, le forme, i legni diversi e le finiture degli strumenti, la posizione dei musicisti.
A questo punto sedetevi e cominciate ad ascoltare la musica, iniziate a vivere il concerto, fatevi regalare dagli artisti la loro essenza e la loro capacità di interpretare quel momento e quel luogo.
Poi prendete la fotocamera e cominciate a guardare le luci e i movimenti, sempre immersi in ciò che state vivendo.
Usate la vostra macchina come loro usano gli strumenti. Loro vi offrono arte. Voi dovete acquisirla, farla vostra, interpretarla e stenderla sulla tela della pellicola.
Vi renderete conto che è più semplice farlo che leggerlo o scriverlo, dovete solo vivere il momento a cui state partecipando.
Un ultimo consiglio, forse il più banale o forse il più prezioso...
Scattate a tempo.
Ascoltate il ritmo, sentitelo e seguitelo.
Fate click sul colpo della cassa o del rullante, sull’acuto della voce o sul battere della chitarra.
Provate ad ascoltare il basso o le percussioni.
Seguire il tempo vi farà cogliere il momento, il gesto, l’espressione, l’essenza dell’esecuzione.
Senza rendervene conto, mentre lavorate, resterete immersi nella musica... La musica farà il resto.
© www.fotobiettivo.it / gabriele bientinesi
<< Fotografare ai concerti – parte 2
Sulla fotografia ai live, si può leggere anche questo articolo >
martedì 16 giugno 2015
Fotografare ai concerti live, una fotografia fatta di tecnica e cuore – parte 2
Presentiamo ai lettori di Fotobiettivo una serie di articoli dedicati alla fotografia di concerti. Gabriele Bientinesi, responsabile per la comunicazione e la fotografia al Festival Musicastrada e fondatore della scuola Fotografando, accomunando la sua passione tanto per la musica che per la fotografia, ci apre al mondo della fotografia live con un taglio didatticamente rigoroso e al contempo coinvolgente…
…continua da : Fotografare ai concerti – parte 1
4 - Una finestra sul mondo.
Il sensore d’immagine, c’è poco da fare, è come una finestra: più grande è, più luce entra...
Ce ne rendiamo immediatamente conto quando guardiamo uno scatto fatto con una reflex o una mirrorless di ultima generazione rispetto alla stessa scena ripresa da una compatta o da uno smartphone. Finché c’è luce, quando c’è il sole, tant’è, spesso anche l’iphone fa miracoli, ma al buio...
Al buio è un’altra storia, c’è poco da fare. La differenza di dimensione del sensore si fa vedere, e tanto. La capacità di intrappolare la luce in ogni dettaglio diventa incredibilmente superiore e regala risultati eccezionali anche in condizioni davvero difficili.
Sulla differenza che c’è invece tra un sensore Full-Frame e un DX (o APS-C), magari vale la pena di spendere qualche parola.
Se dicessi che il sensore FF non è superiore sarei bugiardo. D’altronde se dicessi che il formato DX ha solo svantaggi sarei bugiardo allo stesso modo.
Ogni sistema ottico ha i suoi pro e i suoi contro. Al buio la differenza si vede, inutile negarlo, con il FF si lavora meglio, già a 1600 ISO la differenza è notevole. Il rumore è minore e più gestibile, i dettagli e la definizione sono superiori, la gamma dinamica più ampia. A sensibilità superiori lo scarto diventa ancora più netto.
Ma siamo sicuri di avere veramente sempre bisogno di sensibilità così elevate e di tanta definizione da poter stampare un’intera parete? Secondo me no.
Si possono ottenere risultati eccellenti e professionali anche con un sensore DX, a patto di essere consapevoli delle sue possibilità e dei suoi limiti. Senza contare naturalmente l’aspetto economico, che da solo basta e avanza come discriminante per tanti...
Il FF è superiore sotto tutti i punti di vista. È più preciso, più definito, e restituisce una gamma dinamica più ampia. Il DX è meno definito e più sporco, ma più economico e più gestibile, e spesso offre prestazioni più elevate in termini di velocità di scatto e di reazione. In termini di acutanza potremmo assimilare il formato DX alla vecchia pellicola 35mm, il FF al medio formato 6x4,5 o 6x6.
Il cosiddetto “fattore di moltiplicazione della focale” (1,5x su Nikon, Sony, Pentax e Fuji; 1,58x su Canon; 2x su Olympus e Panasonic) ha invece pro e contro allo stesso tempo. Allo stesso modo in cui ha bisogno di focali più corte per inquadrature grandangolari, così aiuta non poco a focali elevate, consentendo di risparmiare in termini di costo e di peso quando si necessita di lunghi teleobiettivi.
Per fotografare un concerto avremo sicuramente bisogno di utilizzare alte velocità ISO, e dettaglio e nitidezza non sono mai troppi... credo però di potervi garantire personalmente che otterrete risultati migliori con un sapiente uso di un sensore DX e una buona ottica, che con un Full Frame usato approssimativamente abbinato magari a un obiettivo non proprio eccezionale.
Giusto per parlare di prestazioni... a lezione, a un corso di livello avanzato, mi trovai in mezzo a un’accorata discussione sul se e sul quanto una fotocamera fosse migliore dell’altra. Misi sul lettino da still-life il mio orologio da polso e feci ritrarre ai due “contendenti” lo stesso soggetto, con la stessa inquadratura e con lo stesso obiettivo. Canon 5D Mark II contro Canon 7D, due signore di alta classe, una FF l’altra APS-C. 24-70/2,8L, 200 ISO, cavalletto e luce continua per entrambe.
Risultato: praticamente impossibile distinguere gli scatti...
Morale (sempre quella):
la macchina aiuta, sicuramente...
Qualcosa può fare l’ottica...
La foto la fa il fotografo.
5 - Ottiche, ottiche delle mie brame...
Chi sono le migliori del reame?... Facile... Non ci sono!
O meglio, l’ottica migliore, la più adatta, è quella che vi consente di fare nel miglior modo possibile ciò che vi eravate prefissati o che avevate immaginato. Quella con cui vi trovate meglio, magari quel peletto più leggera o più pesante a gusto vostro. In poche parole quella o quelle che vi piacciono di più. Non c’è un “canone professionale” preciso e prefissato che dovete rispettare altrimenti non va bene, non state facendo un beauty o una riproduzione fedele in still-life, tutto dipende da dove siete, da quanto lontani siete, da quanto tempo avete, da quanta luce c’è a disposizione e, soprattutto, da cosa volete fare.
Ah, una piccola parentesi, io sono abituato a ragionare in 35mm, per cui se lavorate in DX o APS-C considerate il fattore di moltiplicazione.
Dunque dicevamo... se siete accreditati come giornalisti o fotografi a un concerto relativamente grande avrete pochi minuti per scattare da sotto il palco, per cui il consiglio è semplice: un paio di macchine al collo con roba tipo 24-70 e 70-200 montati (ovvio se ne avete una sola tenete il secondo obiettivo a portata di cambio) e vedete quello che vi è possibile fare.
Se invece state lontani avrete bisogno di ottiche più lunghe, se siete ufficiali e potete magari salire anche sul palco vi serviranno magari anche grandangolari un pelo più spinti (tipo 20/24) per rendere la sensazione di “profondità” ed entrare nella scena. Se siete davanti al palco e volete essere precisi e accademici riconducetevi alla fotografia di figura: sopra i 70mm e giustezza nella profondità di campo. Se volete scatti ai volti o alle mani dei musicisti o magari particolari dello strumento o dell’esecuzione allora un tele medio alto (200/300 mm) sarà più utile.
Ovvio che più la vostra ottica è luminosa meno dovrete ricorrere ad alti ISO, sicuramente questa diventa una discriminante forte nella scelta di lavorare con un 2,8 invece che con un 5,6 o 6,3, senza contare che quasi sempre una maggiore apertura relativa è sinonimo di una più alta qualità ottica. Tenete sempre a mente che ogni ottica ha, fra virgolette, un tempo di otturazione minimo utilizzabile con tranquillità, indipendentemente da qual è la velocità di movimento del soggetto. Se state scattando a 200mm sarà dura scendere sotto 1/200sec., magari uno o due terzi di stop meno se siete stabilizzati. In ogni caso per usare tempi tipo 1/60, che di per se basterebbero a inchiodare magari il movimento del soggetto ma sono poco compatibili con l’angolo di oscillazione della focale, avrete bisogno di un cavalletto. Scattare dal treppiede vi permette tecniche di scatto creative, anche di movimento (avete presente Ernst Haas?) difficili da eseguire senza (e ricordatevi di spegnere lo stabilizzatore, io lo dimentico sempre!).
Se siete scolastici fino in fondo e usate ottiche fisse, io non rinuncerei a un buon grandangolo e almeno a un medio tele. Scelte che vi fanno camminare di più ma spesso aiutano a trovare la giusta inquadratura, proprio perché vi costringono a guardare bene il soggetto prima dello scatto, senza contare che garantiscono quasi sempre una qualità ottica e una luminosità superiori agli zoom.
In definitiva ogni obiettivo ha caratteristiche intrinseche, per progettazione e costruzione che lo rendono diverso da ogni altro. A parere mio la scelta migliore resta sempre la stessa: usate quello con cui vi trovate meglio...
6 - Al sole o a lume di candela?
Ma il flash? Serve davvero? Aiuta? O magari può anche peggiorare le cose?
«Pensiamo all’interno di una stanza, di un rifugio, di una tenda. Pensiamo al senso di intimità che solo la luce disponibile è in grado di suggerire. Pensiamo alla luce cruda e piatta del flash, agli occhi rossi, agli sguardi spiritati, agli oggetti della stanza impietosamente illuminati come se improvvisamente un gigante dispettoso avesse scoperchiato il tetto.
E chiediamoci: l’immagine che voglio comporre ha davvero bisogno di tutta quella luce?» [cit. Michele Vacchiano “Il sole portatile” 2001]
Non è specifico sugli argomenti trattati qua ma credo che renda molto bene l’idea...
C’è da dire che in casi come il nostro, nella fotografia di spettacolo, il lampeggiatore è anche estremamente fastidioso, sia per l’artista, sia per il pubblico (in teatro, per esempio potreste anche venir buttati fuori!). Il flash, paradossalmente, al buio serve a poco, le cose che servono davvero sono ottiche veloci e un cavalletto.
Soprattutto il flash della vostra macchina e soprattutto se non siete abbastanza vicini. Fate un conto rapido: un piccolo flash come quello incorporato avrà una potenza si e no di NG 12, forse 14, questo vuol dire che per coprire una distanza di 6 metri a 50mm vi serve un’apertura relativa di f/2; alzate l’ISO e migliorate le cose... ma vi rendete conto subito che se dovete lavorare comunque a 800 ISO tanto vale tenerlo spento. Senza lampeggiatore alzato evitate la brutta “flashata” sulle parti chiare del soggetto, rendete meglio l’atmosfera delle luci di palco ed evitate di dar fastidio a chicchessia.
Può darsi che vediate usare il flash a qualche fotografo ufficialissimo su un grande palco che si mette accanto all’artista per fare un primo piano o un dettaglio, magari usando un deflettore o un diffusore per creare luce negli occhi, diversamente è davvero poco utile. Per cui vi direi: usatelo il meno possibile, e soprattutto evitate di dar retta alla vostra fotocamera quando vi dice di alzarlo.
7 - Bianco, rosso e...
Il miracolo del bilanciamento..
Settare il bilanciamento del bianco per la luce di spettacolo può sembrare un’impresa tanto sono variabili, molto dipende dalla bravura del tecnico e dalla capacità dell’impianto luci di offrire un “tappeto” neutro o quasi su cui poter lavorare, sfruttando i fasci di luce più colorati come luci secondarie o accenti.
Spesso però lo spazio è poco, o il concerto non si presta a troppi cambi di luce, per cui ci possiamo trovare a fare i conti con una forte dominante magari rossa o blu o di chissà quale colore.
Da un punto di vista tecnico le luci di palco sono quasi sempre faretti (par o simili) a incandescenza o fluorescenza, con una temperatura intorno ai 3500-45000 °K, con montate davanti delle gelatine per colorare la luce. Da qualche anno si cominciano a vedere anche molti fari a LED RGB, fonti di luce colorata direttamente all’origine. In entrambi i casi, se doveste ricreare il colore reale dello strumento o del dettaglio l’unica soluzione sarebbe un approccio da studio, fare il bilanciamento del bianco prima di ogni foto o attaccare un check all’artista... Direi che rasentiamo il ridicolo.
Se il tecnico o la band hanno scelto come luce principale una tonalità rossa, o blu, probabilmente avevano i loro motivi. Magari è una scelta stilistica per evocare una determinata sensazione, o forse si adattava meglio all’ambiente circostante. Oppure, banalmente, piaceva così o non c’erano gelatine di altri colori. In ogni caso, se l’artista è illuminato di blu non vedo il motivo per far sparire quel colore e riportare il tutto ai reali pigmenti. Se volete raccontare forme e contrasti rinunciando all’atmosfera del colore scattate o sviluppate in bianco e nero.
Nel 99% dei casi la vostra fotocamera si comporterà in maniera egregia con il bilanciamento del bianco impostato su automatico, se si tratta di una macchina particolarmente vecchia (che so una Nikon D100 o giù di lì) e proprio non ne vuol sapere di restituirvi un’immagine credibile, provate a farla lavorare su sole pieno, tungsteno o fluorescenza, una delle tre restituirà una foto corretta.
Un altro approccio può essere ragionato sulla tinta, ovvero sul colore della gelatina che è stata messa davanti alla fonte di illuminazione. Se la fotocamera vede una dominante preponderante sulle altre lunghezze d’onda può tendere a tagliarla per compensare e restituirci una foto priva di vividezza, “moscia” per intenderci. Per ovviare a questo potete agire sul bilanciamento colore della fotocamera o sullo “shift” del bilanciamento del bianco (dipende dai software dei costruttori). Se c’è troppo rosso e la macchina lo taglia, ditele che c’è sul serio e non sta vedendo male. Basta spostare il cursore nella direzione di quel colore in modo da esaltarlo e renderlo più vivo.
Detto tutto questo, potete sempre scattare in RAW, in modo da poter fare tutte le regolazioni e gli esperimenti del caso con calma in fase di sviluppo su ogni singolo scatto.
CONTINUA…
© www.fotobiettivo.it / gabriele bientinesi
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giovedì 11 giugno 2015
Fotografare ai concerti live, una fotografia fatta di tecnica e cuore – parte 1
Presentiamo ai lettori di Fotobiettivo una serie di articoli dedicati alla fotografia di concerti. Gabriele Bientinesi, responsabile per la comunicazione e la fotografia al Festival Musicastrada e fondatore della scuola Fotografando, accomunando la sua passione tanto per la musica che per la fotografia, ci apre al mondo della fotografia live con un taglio didatticamente rigoroso e al contempo coinvolgente…
Premessa: che cos’è Musicastrada?
Musicastrada nasce sedici anni fa, con la voglia di riunire in un unica realtà tutte quelle figure che lavorano intorno a un evento come un festival e alla musica in generale, non solo musicisti quindi, ma anche fonici, tecnici, grafici, esperti di comunicazione, fotografi, videomaker… Sedici anni fa nasce anche il MusicastradaFestival, una manifestazione itinerante che ogni anno si muove nei comuni della provincia di Pisa per portare musica autoriale di altissimo livello nelle piazze più suggestive dei comuni toscani; sono più di venti le amministrazioni che ogni anno, a turno, ospitano una tappa del Festival con il suo concerto. Negli anni Musicastrada è diventata anche un’agenzia di Booking e management e una casa discografica, che produce e propone i suoi artisti in Italia e in Europa. Nel contempo, la parte “fotografica” legata al Festival, che durante gli anni è stato documentato da importanti fotografi ed è anche diventato protagonista di un film-documentario, è cresciuta ed è diventata una scuola, Fotografando, attiva da diversi anni nella provincia di Pisa e punto di riferimento per fotografi e appassionati di tutta la Toscana.
Potete trovare ogni informazione sul calendario di Musicastrada 2015 che inizierà il 15 luglio nel sito del festival www.musicastrada.it
1 - Perché fotografare un live?
Perché fotografare un concerto? Perché impiegare tempo ed energie con la fotocamera al collo, magari grossa e pesante, a produrre scatti invece di starcene seduti a guardare lo spettacolo per il semplice piacere di farlo?
Un concerto è qualcosa di più dell’ascoltare musica... 30 anni fa c’erano i dischi in vinile e i mangianastri, poi le musicassette e i walkman attaccati alla cintura, poi i cd, oggi gli mp3 e internet. Il concerto è sempre quello di tanti anni fa. Non è unicamente musica. È un insieme di emozioni, di suoni, di colori e di luci. È uno spettacolo che va ben oltre il brano musicale e l’esecuzione. È l’artista che è davanti a te, sul palco, che ti regala una parte di sé, del suo essere, del suo mondo, della sua vita.
Questo è forse ciò che ci fa sentire vicini a chi è davanti a noi su quel palco, che ci da la spinta a voler ricordare e quindi raccontare, da fotografi, un’emozione che è sempre diversa, sempre nuova, sempre forte.
Cito Vittorio Storaro: «Io credo che ognuno di noi dia una parte della propria vita quando tenta di scrivere con la luce.» [...]
«Proprio come fa l’autore musicale con le note, lo sceneggiatore con le parole, così facciamo noi scrivendo con la luce.».
Appunto. Fotografare vuol dire scrivere con la luce.
Tradurre in bianchi, neri, grigi, colori, sfumature e forme, quel turbinio di sensazioni ed emozioni che vola sopra di noi, attraverso di noi, dentro di noi. Raccontare con un’immagine, un tempo, uno spazio e un sentimento insieme. E se ci pensi bene sembra impossibile...
I fotografi però sono persone caparbie e non si arrendono facilmente. Ritrarre un tale flusso di emozioni è forse una delle cose più difficili da fare. Eppure spesso, riescono a rendere immortale quell’attimo, quel momento, che permette di regalare a chi non c’era la grandezza di un evento che ha emozionato una piazza intera.
È la grandezza della fotografia.
E una fotografia è fatta di tecnica e di cuore...
Sulla tecnica possiamo provare a darvi una mano, senza pretese, magari raccontandovi la nostra esperienza professionale e personale.
Il cuore... dovete mettercelo voi!
2 - È buio (non ce lo scordiamo).
I concerti, a meno di occasioni particolari, si fanno di sera. Gli spettacoli di teatro, nella maggior parte dei casi sono al buio o quasi.
E buio lo è davvero, ed è alla fine quello che dobbiamo fotografare. La luce contrapposta alla non-luce.
Ovvero quella poca illuminazione che disegna sull’artista un’espressione, una smorfia o un gesto, o magari sullo strumento e sulla scenografia (naturale o artificiale che sia) un riflesso o un’ombra particolare che inevitabilmente si offrono allo spettatore come catalizzatori di attenzioni e regalano quell’emozione e quell’atmosfera particolari senza le quali lo spettacolo non sarebbe assolutamente lo stesso.
Uno degli errori che vengono fatti più di frequente è cercare di esporre, magari dando retta all’esposimetro della fotocamera, in modo da restituire una scena omogeneamente illuminata. Allo stesso modo qualche milione di blog, forum e “amici esperti” vari, ci raccontano di come esporre queste situazioni più difficili in modo da ottenere un istogramma “corretto”, ovvero senza picchi a destra e a sinistra (alte luci e ombre), altrimenti la foto è sbagliata...
Errato, un’esposizione con un istogramma “corretto” restituirebbe solo un’immagine confusa di una scena mediamente illuminata nel suo complesso, assolutamente irreale e sicuramente molto poco interessante.
L’esposizione più corretta è sulle luci, spot o media sottoesposta di un paio di stop che sia, quella è e quella dobbiamo utilizzare. E il nostro istogramma dovrà essere per forza di cose “sparato” sulle ombre, il nero davanti a noi c’è, e deve essere nella foto. È nero o quasi il cielo, il muro, la quinta, la parete, parte del palco e via discorrendo.
L’esposizione migliore di solito si ottiene con una lettura spot su un punto di alta luce riflessa presente sulla scena, nel nostro caso un piatto o un’asta della batteria, uno strumento come una chitarra con finitura verniciata lucida e di colore chiaro, un abito particolarmente “sgargiante” dell’artista... Se il palco è in legno e individuate un punto illuminato in pieno sarà un grigio 18 ideale...
In pratica ci serve qualcosa che rifletta gran parte della luce incidente, se poi senza grosse dominanti scure (rosso, blu, verde, magenta) ancora meglio. Così facendo porremo in zona 5/6 (dove dovrebbe essere il grigio medio) la luce riflessa al 50% circa, riuscendo a ottenere una gamma dinamica ottimale, in grado di restituire correttamente dal buio assoluto alla luce bruciata dei fari diretti verso l’obiettivo.
Il sensore reagirà alla luce anche in relazione ai valori tonali globali, garantendo tranquillamente una latitudine di posa di 3 - 4 stop abbondanti, di conseguenza un margine di errore abbastanza importante, paragonabile se volete a una pellicola pancromatica (con cui era buona regola, in questi casi, esporre sulle luci per sviluppare sulle ombre). Non ci dimentichiamo che le moderne fotocamere digitali che stiamo utilizzando sono estremamente performanti sotto questo punto di vista, sono in grado di coprire una gamma dinamica anche superiore a 10 stop con una latitudine di posa estremamente flessibile e adattabile.
Se ci trovassimo a dover fare la stessa cosa con un’invertibile a colori, flessibile quanto una corda di violino tirata, l’accuratezza dell’esposizione ci darebbe sicuramente più da pensare...
3 - Un tempo si chiamava ASA (o DIN).
Era la prima cosa da fare: comprare la pellicola adatta.
Oggi si chiama sensibilità o velocità ISO equivalente, ed è in pratica la quantità di “corrente elettrica” che diamo al sensore per funzionare. Più bassa è, più avremo bisogno di luce per scattare, più l’immagine restituita sarà precisa e pulita. Più alta è, meno luce sarà necessaria, ma la nostra immagine diverrà pian piano più imprecisa e “granulosa” con l’aumentare del valore.
Un po’ come succedeva in pellicola, dove più alta era la sensibilità più grossa era la grana, il sensore sviluppa, ad alte sensibilità ISO, una sorta di rumore digitale, tecnicamente chiamato “rumore di luminanza” che è visivamente abbastanza simile alla vecchia grana di una pellicola ad alta sensibilità (1600 ISO e superiori).
Cosa fare dunque? Usare altissimi ISO per avere maggiori possibilità di scatto con tempi veloci e diaframmi chiusi o cercare di ottimizzare il rapporto luce/rumore per avere un’immagine più precisa e pulita con il rischio di scattare al limite delle possibilità fisiche dell’ottica e della macchina?
La risposta giusta sta banalmente nel mezzo.
Le fotocamere più moderne sono in grado di scattare a sensibilità pazzesche senza problemi di rumore, quelle un po’ più datate si difendono comunque bene fino a 800/1600 ISO, e vi garantisco che in pellicola era veramente raro andare sopra questi valori, si ricorreva ai 3200/6400 ISO solo in condizioni veramente terribili... e le foto chissà come mai venivano fuori lo stesso.
Ricordo una collega che una volta, parlando con un’allieva, pronunciò una frase che mi fece subito riflettere. In luce crepuscolare, alla domanda «Che ISO devo usare?», rispose in modo estremamente semplice: «Usa l’ISO come un Jolly» disse, «Se serve un tempo troppo lungo per usare il diaframma di cui hai bisogno alza l’ISO». Trovai questa risposta assolutamente geniale: non solo interpreta perfettamente il senso della velocità ISO, ma slega anche da tutti i preconcetti e le abitudini che i fotografi di vecchia generazione, come me, hanno magari verso un certo tipo di pellicola e di attrezzatura.
Io che ero solito, per questo tipo di scatti, usare Ektachrome o Superia, spesso ragiono direttamente a 1600 ISO, a prescindere da quello che sto realmente guardando, e che forse sarebbe meglio interpretato con altre soluzioni.
In conclusione: usate la sensibilità necessaria.
Partite da valori intermedi e verificate sul campo, cominciate ad alzare l’ISO quando vi rendete conto che la luce è troppo poca... Alla fine state scattando in digitale, una rapida occhiata allo schermo lcd fugherà ogni dubbio.
Se state scattando a 200mm con apertura relativa 5,6 e non riuscite a scendere al necessario 1/200 di secondo e proprio non ne volete sapere di portarvi dietro un cavalletto o siete fotografi “a mano libera”... semplicemente alzate l’ISO!
© www.fotobiettivo.it / gabriele bientinesi
Fotografare ai concerti live - PARTE 2 >>
Sulla fotografia ai live, si può leggere anche questo articolo >
martedì 19 maggio 2015
Istogramma ed esposizione: comprendere la mappa tonale e la gamma dinamica. Tutorial
L’istogramma di un’immagine, sia in fase di ripresa (se si utilizza la simulazione di esposizione) che di visualizzazione, è uno degli strumenti di analisi dello scatto tra i più importanti. Un istogramma può dirvi se l'immagine è stata correttamente esposta, se l'illuminazione è dura o piatta, e ciò che si può fare sia in fase di scatto che successivamente in postproduzione. Le due fasi sono strettamente correlate.
Ogni pixel di un'immagine riproduce un colore che è il risultato di una combinazione dei colori primari, rosso, verde e blu (RGB). Ognuno di questi colori può avere un valore di luminosità da 0 a 255 per un'immagine digitale con profondità di 8-bit (tipicamente il jpeg è 8 bit, il formato Tiff è 16 bit, il formato RAW è 14 bit). Un istogramma RGB è la sovrapposizione dei tre canali attraverso i rispettivi valori di luminosità e si conta in intervalli di luce da 0 (puro nero) a 255 (puro bianco).
mercoledì 10 dicembre 2014
Stories from India di Marco Palladino - MOSTRA FOTOGRAFICA in una serata dedicata all’India
Domenica 14 in occasione di una bellissima iniziativa dedicata all'India dall' Associazione Shiva Mahadeva nello splendido locale Shari Vari in via di Torre Argentina 78 a Roma, verranno presentati tre dei reportage che compongono il progetto “Elegance and Dignity – Stories from India” di Marco Palladino, con allestimento foto e filmati video.
La serata di presentazione si svolgerà Domenica 14 Dicembre presso lo SHARI VARI a partire dalle 19 e oltre la MOSTRA FOTOGRAFICA di Marco Palladino si terranno:
SPETTACOLO DI DANZA Classica dell’india, stile Odissi. Marialuisa Sales
MUSICA ”Mandala" live duo di Handpan (hang), Andrea B...alda e Alessio de Simone
Partecipa Tu, e porta un Amico, l’ ingresso all’ apericena sarà di 15 Euro , parte del ricavato della serata ci aiuterà a portare un sorriso in India.
CONDUCIMI DALL’ IRREALE AL REALE, DALL’ OSCURITA’ ALLA LUCE, DALLA MORTE ALL ’IMMORTALITA’.
(BRIHADARANYAKA UPANISHAD) 1 . 3 . 28.
Shari Vari via di Torre Argentina, 78 00186 Roma www.sharivari.it
L’ Associazione SHIVA MAHADEVA nasce da un atto di amore nei confronti di un paese straordinario, affascinante, terribile ed amorevole nello stesso tempo, l’India.
L’obiettivo fondamentale che l’Associazione SHIVA MAHADEVA si propone di perseguire è quello di far conoscere in tutte le sue sfaccettature la millenaria cultura indiana, sostenendola, creando un ponte tra l’ Italia e l’India.
mercoledì 27 agosto 2014
Workflow digitale. Come trattare le foto dopo lo scatto. Lightroom 5. Curve e fotoritocco avanzato.
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Affronto un argomento su cui in rete potete trovare tutorial di ogni sorta. Mi limiterò a dare delle indicazioni generali, spiegare perché oggi utilizzo un determinato approccio all’elaborazione delle foto (approccio che è il mio e non è detto vada bene per tutti, né per tutti i generi). Da docente di fotografia, ho sempre cercato di spiegare i principi e i metodi ai miei allievi, non le regolette, e solo dopo i dettagli tecnici necessari. Una volta capiti i principi, come applicarli diventa piuttosto intuitivo.
Innanzitutto ho abbandonato completamente Photoshop (o meglio lo utilizzo soltanto per le finalizzazioni grafiche, dépliant o cartoline, sovrascritture, ecc., non per il ritocco delle immagini). Ritengo che uno scatto, se ben eseguito, con le giuste condizioni di luce ed esposto correttamente (non entro in altri aspetti che non competono la postproduzione), non richieda elaborazioni intensive, ovvero niente che non possa essere eseguito dentro Lightroom, che attualmente utilizzo come unico software di gestione/sviluppo/pubblicazione, arrivato alla versione 5.
Una piccola digressione, il concetto di integrità delle immagini, come mi è stato ben esposto da un photo editor britannico con 30 anni di esperienza alle spalle, richiede che le foto non siano sottoposte ad una lavorazione che faccia loro perdere la forza e l’interezza del momento: “the honesty of the image and the integrity of the story depends upon capturing a situation as it is (...)”. Semplicissimo, quasi banale, ma ci passa la differenza tra chi qui da noi si sente un artista e quindi stravolge le immagini per renderle a tutti i costi "uniche" e chi si sente semplicemente un testimone e interprete di storie che devono essere raccontate, per renderle "vere". L'overprocessing o ritocco eccessivo, che se agli occhi del profano rende un po' più belle le foto banali, decisamente invece uccide le buone foto. "The result is that you're losing the integrity and power of the moment. Per distinguersi dal brusio in verità si rischia di omologarsi e si perde il valore più vero della fotografia, come una bella donna che si copre di trucco.
Bisogna distinguere ovviamente tra un fotoritocco eccessivo nel senso che è eseguito con metodi distruttivi e un fotoritocco pur fatto con metodi non distruttivi che stravolge troppo una foto, ad esempio vignettature eccessive, chiaroscuri irreali.
Esempio di un’immagine con fotoritocco eccessivo, che abbiamo poi elaborato in maniera totalmente non distruttiva tramite Lightroom 5:
Ora quindi restando fedeli a questi principi e in un’ultima analisi affidandoci alla bontà delle nostre foto per quello che sono, non concordo che le immagini così come escono dalla fotocamera vadano bene. Innanzitutto perché la fotocamera esegue un fotoritocco, e piuttosto grossolano, per produrre i suoi JPEG. Lo si può pre-editare, anzi le ultime fotocamere permettono addirittura di eseguire un ritocco in-camera sui RAW dopo lo scatto.
Quale che sia il metodo, che dipende dal fattore tempo (per un servizio fotografico composto di molte immagini di non particolare valore giornalistico oppure al contrario perché devono essere immediatamente inviate all’agenzia/editore, un editing veloce sarà preferibile), le immagini digitali DEVONO sempre essere sviluppate e ottimizzate. Quantomeno per conferire loro una curva caratteristica che le renda meno piatte, tipico problema delle immagini digitali. Ne abbiamo parlato in maniera tecnicamente più approfondita in questo articolo. Mentre sull’utilizzare i RAW oppure i JPEG si può leggere quest’altro articolo.
In questo senso Lightroom è sicuramente uno strumento migliore. Permette sia editing veloci su set di fotografie sia interventi mirati di maggiore spessore, come il dodge & burn, le correzioni locali, l’impiego di curve assai potenti. Lungi da me dire che solo con Lightroom si possono operare interventi non distruttivi, ovviamente non è così. Entrambi gli strumenti di editing permetto interventi di diverso tipo ma con Lightroom, lavorando questo solo sul RAW, se non si fanno assurdità, generalmente si rischia meno di alterare la qualità delle immagini a livello di pixel. Non entro troppo nel merito ma elenco le ragioni che secondo me rendono Lightroom preferibile a Photoshop (ragioni che non è detto valgano per tutti).
* Costa molto molto meno
* Utilizza archivi virtuali e non necessita di creare pesanti file .PSD o .TIF da archiviare
* Permette di lavorare più immagini contemporaneamente in modo più veloce ed efficace
* Dialoga con tutte le piattaforme di pubblicazione. I fotografi di Fotobiettivo poi sono facilitati in quanto utilizziamo un archivio fotografico dentro la piattaforma di Photoshelter (http://fotobiettivo.photoshelter.com) che è sincronizzato con Lightroom
* Ha tutti gli strumenti di pubblicazione necessari al fotografo, dalle gallerie web ai video ai libri, per quanto la sezione per la creazione dei libri lasci un po’ a desiderare (i formati sono vincolati a quelli previsti da Blurb e non si possono cambiare)
* Infine, argomento assai soggettivo, produce immagini migliori (benché secondo Adobe gli algoritmi di decodifica dei RAW siano identici).
Come procedo?
Prima ancora di arrivare al PC cancello diverse fotografie direttamente dalla fotocamera, sul campo. Questo procedimento che NON consiglio, soprattutto ai principianti, è per me il primo (e in ogni caso, se non è necessario, scatto molto poco, mi regolo come se utilizzassi ancora le pellicole).
Quando scarichiamo i nostri RAW nel PC avremo una cartella già con una prima selezione (ripeto, io butto “allegramente” le foto di cui non sono convinto, non perché carenti per la tecnica ma perché non confacenti alla visione che avevo in mente), avremo poi la possibilità dentro Lightroom di creare un’ulteriore cartella virtuale che conterrà la selezione finale per un determinato impiego. La forza di questo strumento è che ne possiamo creare quante ne vogliamo e non saranno fisicamente nel nostro disco. Possiamo creare copie virtuali e cartelle virtuali (chiamate ‘raccolte’) ad esempio in B&N e a colori, oppure per usi differenti, per la stampa o il web, per contenitori diversi (le foto editoriali ad esempio richiedono un approccio più conservativo).
Una volta creata la raccolta, aggiunte le parole chiave ed editati i metadati IPTC, sincronizzando tutte le foto scelte, si può procedere allo sviluppo vero e proprio.
Come mi regolo?
Semplice, ho creato degli interventi personalizzati (potete scaricare i plug-ins, ce ne sono a migliaia anche gratuiti, ma non saprete esattamente come agiscono, su quali parametri, se non a posteriori) utilizzando un criterio mentale per me funzionale, ovvero:
1) interventi di ottimizzazione generali che vanno bene su tutte le foto oppure su tutte le foto di un determinato genere. In linea di massima questi vanno a ottimizzare l’istogramma dell’immagine, comprimendo il più possibile la parte a destra (bianchi e colori chiari, alte luci) ed espandendo quanto basta la parte a sinistra (neri e toni scuri) per ampliare la gamma dinamica di questi. Perché sia necessario farlo si spiega con le caratteristiche specifiche di resa che ha il digitale che acquisisce la luce in modo molto diverso dalla pellicola (leggi articolo >>). Diamo un esempio che ripeto va bene per questa foto in particolare ma non per tutte.
2) Interventi di ottimizzazione avanzati, che riguardano in buona sostanza l’utilizzo della scheda “CURVE”. Questa ha due modalità, quella parametrica (che consiglio per ulteriori interventi di ottimizzazione generale laddove il file non sia perfettamente esposto, questa è preferibile invece di esagerare con i valori della scheda di base) e quella per PUNTI, che è la più importante per donare il contrasto giusto per ogni singola foto. Io tengo il valore contrasto della scheda di base addirittura a –100, preferisco usare le curve per tutto.
3) Interventi estetici mirati, ovvero dei predefiniti che aggiustano ad esempio la vignettatura, la divisione dei toni e altre cose che servono ad “abbellire” una foto ma non vanno applicati sempre e comunque.
Fermarsi solo al punto 1) e velocemente il 2) può essere un buon modo per elaborare velocemente foto che dobbiamo consegnare presto, senza rinunciare ai vantaggi offerti dal RAW. Tuttavia se abbiamo pochissimo tempo è chiaro che i JPEG così come escono dalla fotocamera adeguatamente impostata o addirittura tramite i software specifici del brand (come ad esempio Canon Digital Photo Professional) sono da preferirsi.
©2014 www.fotobiettivo.it – marco palladino
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martedì 17 settembre 2013
Corsi di Fotografia Fotobiettivo a Roma 2013
Ci siamo, il tanto atteso corso completo di fotografia reflex digitale dell'autunno 2013 è in partenza.
Il corso è unico nel suo genere infatti contiene al suo interno ben quattro workshop con tre uscite fotografiche, pratica di fotografia di ritratto con modella, fotografia di paesaggio in Abruzzo, workshop di sviluppo e fotoritocco, workshop di fotografia notturna.
giovedì 30 maggio 2013
Che bella questa foto…merito certamente di Photoshop. Postproduzione e ritocco.
Che bella foto, chissà che interventi hai fatto in Photoshop? Volente o nolente qualsiasi fotografo si trova oggi a confrontarsi con domande del genere. Basti pensare alla foto vincitrice del World Press Photo Award 2013, la bella fotografia di Paul Hansen che tante reazioni ha suscitato, come è giusto che sia, la gran parte però rivolte al fotoritocco, secondo molti eccessivo, e ancora una volta tutti a scagliarsi contro il fotografo, reo secondo molti di aver calcato la mano per spettacolizzare una sua foto solo attraverso un uso quasi pittorico della luce e del colore, sicuramente ottenuto in maniera fasulla in postproduzione, secondo i molti detrattori.
C’è chi è arrivato ad ipotizzare che la luce sui volti, che arriva da sinistra, sia stata ricreata artificialmente dal fotografo in postproduzione, che fosse “impossibile” avere una simile luce. Senza nemmeno bisogno di ricordare che la luce rimbalza e che nulla di irreale appare in questa foto, mi chiedo perché ci sia tanta attenzione al fotoritocco e poca a ciò che la fotografia comunica e soprattutto racconta, trattandosi di immagine giornalistica. Quasi che il “teatro di posa” che è diventata la Palestina ormai faccia parte di una storia infinita, nell’immaginario collettivo, un fatto immutabile: “Toh guarda un’altra foto sui morti ammazzati in Palestina…mah, vediamo che postproduzione ha usato il fotografo…”
Questa la foto incriminata, che molti ormai conoscono
Alleggeriamo il tutto e parliamo di un contesto personale. Mi arrivano spesso domande da parte degli allievi circa la postproduzione dei miei scatti. Registro sempre tra chi inizia la sua avventura fotografica una convinzione che il passaggio in Photoshop sia ciò che dona a una foto la sua atmosfera e la sua intensità. A malincuore arrivano più domande in tal senso che non sulla visione del fotografo, o su ciò che lo ha portato a scegliere una determinata prospettiva, a mettere in risalto determinati elementi, o più semplicemente l’ora del giorno, la luce, ecc.
La postproduzione è un passaggio obbligato, si sa, ma appare agli occhi dei più la scorciatoia, quasi il “trucco di magia” con cui anche un fotografo mediocre può creare quasi dal nulla immagini spettacolari. Che ciò avvenga è risaputo, ma le foto mediocri appaiono spettacolari solo a chi non s’intende di fotografia , anche se ne consuma molta, il che oggi significa una moltitudine di persone. Anche in ambito di fotogiornalismo, si sa, la spinosa questione del fotoritocco fa passare notti insonni alle giurie più prestigiose. Tuttavia ritengo che chi, come nell’esempio della foto di Hansen, spara bordate contro la scelta di postproduzione sia decisamente in malafede. Possiamo ragionare tutt’al più sulla necessità di “finalizzare” (mi piace il termine inglese “tuning” che rende bene l’idea, lo utilizzerò in questo post), dare quel tocco finale a un’immagine, ma in il rischio è che oggi il fotografo “deve” esagerare per farsi notare. Mi chiedo se i fotografi non siano piuttosto vittime, tra l’altro sempre pronti ad aizzarsi l’uno contro l’altro.
Torniamo al ragionamento. Il fotoritocco come alternativa al saper fotografare, in un certo senso è questo che emerge. Non a caso nel fotogiornalismo, anche per tradizione, c’è una scuola di pensiero che sostiene le immagini grezze, dure e dirette e non solo pochissimo elaborate, anche pochissimo “pensate”. Di contro fotografi che hanno fatto della loro firma stilistica particolarmente evidente, spesso ottenuta in camera oscura (tradizionale), un segno di distinzione. In un certo senso la replicabilità del processo digitale ha fatto perdere valore a questo aspetto. I “trucchi” di camera oscura erano tratti distintivi di un fotografo, oggi un plug-in di Photoshop o altri software possono replicare “esattamente” un processo di sviluppo digitale utilizzato da un determinato autore, facendogli così perdere unicità. Chi non ha sentito parlare dell’effetto “Dave Hill” o dell’effetto “Dragan”? Basta cercare su youtube e i tutorial si sprecano.
Se una cosa è replicabile, si sa, non è più arte. Eppure ai posteri il “tocco” tipico delle immagini di questi anni apparirà come una moda. Personalmente vedo nella bella foto di Hansen il tipico “tuning” di questi anni, mi chiedo anche se non ne sia artefice qualcun altro, uno studio, un grafico di redazione. Anzi oggi che siamo tutti free-lance, più che di redazione, un grafico di qualche studio a pagamento. A pensarci bene, questa foto (come altre) è praticamente monocromatica, è un bianco e nero che però non vuol esserlo, con una nota di colore che di per sé suscita delle emozioni (generalmente un viraggio o verso tinte seppia o verso il blu, tipicamente da bilanciamento del bianco o da filtro) ma senza la distrazione indotta dai colori (ad esempio il blu elettrico della tuta indossata dall’uomo a destra).
Possiamo gridare allo scandalo o alla mistificazione? Il colore della tuta è fondamentale per la comprensione della storia narrata dalla foto? Ci muoviamo allora in un ambito dove le scelte non sono più dettate dal “giusto o sbagliato” ma anche e soprattutto dalle intenzioni dell’autore, nella migliore delle ipotesi, o più probabilmente di una redazione. Sono convinto che molti miei colleghi oggi si uniformino a un certo gusto per due ragioni di fondo: moda e opportunità. Non me la sento di dargli torto. Moda perché il gusto corrente predilige e quindi richiede immagini con questo tipo di tuning. Opportunità perché se non ti adegui è possibile che le tue foto siano penalizzate rispetto ad altre, e la concorrenza oggi si sa è spietata, perché il photoeditor di turno (sempre che ce ne sia uno nelle redazioni) a sua volta è condizionato dal gusto corrente. A meno che tu non sia un mostro sacro della fotografia che fa scelte totalmente autonome, uniformarsi alla moda è necessario.
Forse, in conclusione, se il fotoritocco in un certo senso si standardizza, la cosa non è poi così da temere. Magari in questo modo sono le foto a parlare più che il tuning. Forse che in bianco e nero le foto erano/sono tutte uguali?
Foto che ha suscitato curiosità negli allievi per la postproduzione che si supponeva molto elaborata
Personalmente, negli anni sto tornando sempre più verso il bianco e nero, vero e proprio. Il colore mi disturba, talvolta è protagonista di un’immagine, come nelle note fotografie di Steve McCurry ma il più delle volte distrae. Sta al fotografo non introdurre colori invadenti nelle sue foto, ma oggettivamente, pensando alla foto di Hansen, avrebbe dovuto chiedere alle persone in lutto di indossare abiti meno colorati? Una riflessione sul colore non può certo ridursi a queste poche righe. Mi sento di aggiungere che ormai note di colore forti e nette sono un espediente per catturare l’attenzione di un gusto più di massa. Così facendo tuttavia si “distrae” l’osservatore e non lo si induce a percepire un’immagine nella sua essenza, di forma, spazio, luce.
Perché il rischio è questo, che se una foto appare ricca di intensità anche grafica, è opinione corrente che sicuramente la postproduzione l’ha resa tale. In un certo senso si rischia oggi che un bravo fotografo che ha scelto finemente momento, composizione, luce, ecc. sia ritenuto tutt’al più un bravo “fotoritoccatore”. Personalmente e per lavoro io devo dialogare anche con chi è inesperto di fotografia (e mi piace farlo) e devo tener conto di ciò che una foto suscita. Una forte dose di contrasto, che si sa regge bene solo su foto che sono perfette dal punto di vista di luce ed esposizione, può apparire come un fotoritocco elaborato e complicato, tale da far pensare: “bella…che cosa hai fatto in photoshop?”. Una sensazione che sarebbe bene non suscitare.
Potrà sembrare incredibile ma questa foto dentro photoshop non è nemmeno passata. Il lavoro c’è, tutto sul RAW, ma quel che è stato aggiustato finemente è il dosaggio di luminosità e di contrasti, niente è stato introdotto o alterato. La foto a colori da cui “partiva” (nel RAW i dati sul colore sono sempre presenti anche se abbiamo utilizzato un effetto monocromo nella fotocamera) è questa, un’immagine a colori sì ma, per meglio dire, l’immagine come era prima dell’ultimo intervento di passaggio al bianco e nero.
La fotografia a colori lascia intravedere meglio come gli interventi correttivi siano avvenuti esclusivamente per un’ottimizzazione della luce, dove ricerco una curva tipicamente non digitale, con maggiore contrasto sui mezzitoni e compressione delle alteluci. Il digitale richiede una ottimizzazione di questo tipo perché registra la gamma tonale in maniera lineare, a differenza delle pellicole che hanno ciascuna una sua curva caratteristica.
Il colore qui è importante per trasmetterci l’atmosfera, la luce calda sul metallo, trattandosi di foto fatte all’alba, il contrasto cromatico tra questa e il blu dello sfondo o delle tute degli operai. Tutto questo non si perde interamente nel viraggio al bianco e nero, perché i contrasti cromatici si trasformano in contrasti di luce. Uno scatto di partenza con passaggi tonali puliti rende immagini in bianco e nero altrettanto nette. Direi che anzi il bianco e nero rende visibili maggiormente i passaggi di luce altrimenti camuffati dal colore (rivedere la foto in B&N).
Spero che da questa trattazione evidentemente parziale e solo abbozzata nasca una riflessione ulteriore, non ho la pretesa di possedere la verità su un argomento così controverso ma spero di aver fatto un po’ di luce partendo dalla mia personale esperienza di fotografo alle prese continuamente con dubbi amletici circa la post-produzione.
Può tornare utile leggere anche questi articoli che ho scritto sul medesimo argomento, partendo da spunti differenti.
FOTORITOCCO E POSTPRODUZIONE: DOVE E' IL LIMITE?
LA CURVA DI CONTRASTO CARATTERISTICA: PELLICOLA E DIGITALE

Tutti i post sul tema FOTORITOCCO >>>
Buona discussione…
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giovedì 27 settembre 2012
PHOTOSHOP CS6 e prova delle nuove potenzialità di Camera Raw 7.0
martedì 18 settembre 2012
Fotoritocco e post-produzione fotografica: dove è il limite tra semplice sviluppo e alterazione? Esiste la foto naturale?
Dall’avvento della fotografia digitale, si è aperta la possibilità di interventi massicci in fase di post-produzione, gli stessi che prima richiedevano operazioni più laboriose in camera oscura. La cosiddetta post-produzione non è altro che ciò che veniva comunemente chiamato “sviluppo fotografico” con la pellicola, allorché la fase di elaborazione post-scatto non si limitava solo a “sviluppare” correttamente il film (o creativamente, si pensi ad es. al cross-processing), bensì anche a reinterpretare la foto fino alla fase di stampa.
mercoledì 18 luglio 2012
Fotografare il Tramonto e l’Alba. Trucchi e suggerimenti.
Il Tramonto...una parola che evoca infinte sensazioni ed esperienze è uno dei soggetti più fotografati, da chiunque. E’ un tipo di fotografia che non manca mai tra gli scatti di un viaggio o di una gita e malgrado sia un tema fotografico cercato continuamente, non appare mai banale proprio per il fatto che non esiste in natura un tramonto uguale all’altro. Le minime variazioni atmosferiche e la disposizione delle nuvole rendono ogni tramonto un’esperienza visiva unica, che produce infinite variazioni di colori in una stessa sera.
La parte più importante di un tramonto è ovviamente il sole. Ma il sole da solo non basta a rendere le vostre immagini meravigliose. Non è una regola ma chiaramente la presenza di nuvole, dalle forme diverse e cangianti, che riflettono i colori della luce solare bassa all’orizzonte, rendono quasi sempre un’immagina più intensa. Ovviamente ci sono situazioni dove anche un cielo pulito rende perfettamente l’atmosfera desiderata. Ovviamente la presenza o no di nuvole è uno dei primi elementi da considerare nella composizione, alzando o abbassando l’inquadratura. Oppure usando un teleobiettivo possiamo anche ingrandire sole e riempire la nostra foto con la grande palla di fuoco del sole, ignorando il contesto o utilizzando solo qualche elemento in primo piano come silhouette. E’ più facile imbattersi in un tramonto che in un’alba, tuttavia speso per pulizia dell’aria e posizione del sole, l’alba è l’unica possibilità (come nella foto a seguire).
Ovviamente fotografare al tramonto non significa necessariamente produrre solo immagini con la silhouette. La gamma dinamica delle moderne fotocamere se propriamente utilizzate ci permette di estendere ben oltre le nostre possibilità creative, anche senza bisogno di ricorrere a tecniche come l’HDR, che generano immagini “innaturali”. L’HDR invero sta diventando sempre più facile da ottenere direttamente in-camera, il software stesso delle moderne fotocamere è in grado di assemblare più immagini a diverse esposizioni. L’esposizione è un punto fondamentale in questo tipo di fotografia.
Una regola empirica che si usava con la pellicola era quella di sottoesporre di almeno 1-2 stop. Ovviamente il digitale ci fornisce lo strumento di revisione delle foto e in caso di foto male esposte possiamo ripetere lo scatto. Il tramonto certo non scappa ma è un fenomeno che avviene abbastanza velocemente ad esempio in inverno. Anche una leggera sottoesposizione oltre i valori di esposizione idonei, si traduceva usando la pellicola in più colori saturi, ovvero più scuri. Era la tecnica usata se non si poteva intervenire in camera oscura. Questa tecnica si può certamente replicare con le fotocamere digitali, ma non è per niente indicata, data la natura di acquisizione del colore dei sensori digitali. In generale, la sottoesposizione fa perdere qualità alle nostre immagini, laddove un semplice intervento in postproduzione, con photoshop o altri software di fotoritocco ci permettono di ottenere gli stressi risultati partendo da un’immagine ben esposta…
Il treppiede è comunque sempre un acquisto obbligato per chi ama fotografare paesaggi e tramonti. Come norma generale, senza entrare nello specifico, ricordiamo che con tempi sotto 1/20 di sec è necessario utilizzare un treppiede. Gli obiettivi dotati di stabilizzatore possono ovviamente darci una mano. In alcuni casi, quando potrebbe essere necessario tenere la macchina fotografica per alcuni minuti al fine di ottenere immagini ad esempio con un movimento delle onde del mare, cavalletto e filtri ND sono indispensabili.
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