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venerdì 24 gennaio 2014

Lo Scempio di Bresson. Fotografia di strada, l’ultima frontiera del marketing fotografico.

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Molti anni fa insegnavo Italiano agli adulti nelle università popolari in Germania (eh sì non ho sempre fatto il fotografo per lavoro, una volta era un piacevole e sereno hobby). Ricordo che c’era una frase che ricorreva spesso tra i miei allievi, per rompere il ghiaccio si chiedeva loro perché fossero così interessati all’Italiano e non, che so, al Francese, che studiano pure a scuola, o allo Spagnolo che è parlato in mezzo mondo. La risposta che ricorreva, oltre ai soliti cliché pizza sole e mandolino era questa: “perché è facile”.

Bene, questa cosa era un problema. Infatti sapevo fin da subito che quell’allievo/a era destinato a fallire. L’Italiano non è una lingua facile, tutt’altro. Certamente manca delle declinazioni come tutte le lingue romanze d’altronde e alle orecchie di un tedesco questo equivale a una semplificazione, ma allora perché non lo spagnolo o il francese, che pure ne sono prive? Poi finalmente capii questa cosa, che in effetti è un paradosso. Infatti se una lingua ti è sconosciuta come fai a sapere che è facile?

La cosa facile dell’Italiano è la pronuncia (deo gratias!). D’altronde chi di noi pratica l’Inglese da anni sa bene come pur padroneggiando la lingua la pronuncia sia sempre un terno a lotto, talvolta per gli anglofoni stessi. Ci sono ragioni storiche ovviamente, usiamo tutti un alfabeto latino, non a caso l’Italiano è il più coerente tra scrittura e parlato mentre l’inglese è un vero caos.

Il problema maggiore con questi allievi era che purtroppo date le premesse alla prima vera difficoltà grammaticale si innervosivano: “qualcuno mi ha detto che l’Italiano è facile, non è possibile che non sia così, sei tu (insegnante) che me lo rendi difficile!”. I tedeschi, un popolo che adoro, possono diventare piuttosto aggressivi di fronte alle frustrazioni. Alla lingua tedesca manca il tempo imperfetto e ha una consecutio temporum piuttosto semplificata, finita la fase dell’imparare la pronuncia anche una semplice frase in Italiano richiedeva loro notevole sforzo concettuale. Dove voglio arrivare?

La fotografia di massa, un fenomeno che forse è sempre esistito ma oggi assume connotati imponenti per via della rapida diffusione e rafforzamento dei cliché fotografici (ne abbiamo parlato qui), sta subendo delle evoluzioni di moda che ritengo indotte dal mercato e che stanno via via fagocitando e riproponendo in versione semplificata e superficiale alcuni dei cosiddetti “generi” della fotografia tradizionale. In verità secondo me inventandone di nuovi, facili da dire e soprattutto da pensare, tutto ciò che può essere vissuto con disimpegno e non richieda alcuna formazione specifica se non tecnica.

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Perché tutti fotografano? Semplice, perché è facile. Molti critici a questo punto aggiungono la frase “ed è vero”. Fare click su un pulsante è facile sì, anche una scimmia addestrata può farlo. Il risultato lo sappiamo tutti è scadente e a tratti grottesco. Ma se lo fai notare al “fotografo” questi si offenderà, talvolta in buona fede perché in quel momento magari ha davvero percepito qualcosa di unico e ritiene che la sua foto lo contenga.

Nel tritacarne social-massificato in cui è stata gettata la fotografia (e ripeto che date le vendite di tecnologia fotografica non mi sorprende) il primo genere, se così vogliamo chiamarlo, a farne le spese è stato il paesaggio. Milioni di immagini prive di senso anche solo formale hanno negli anni talmente banalizzato e svuotato la fotografia di Ansel Adams e co. da renderci insensibili ormai a qualsiasi fotografia paesaggistica tecnicamente impeccabile. C’è da dire che questa passione diffusa, alimentata in migliaia di forum, siti, riviste, ecc. ha di fatto insegnato bene il tecnicismo necessario. Si vedono foto di paesaggio “perfette”. Del tipo l’intervento è riuscito alla perfezione, il paziente è morto.

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Esaurito questo genere, complice soprattutto la miniaturizzazione degli apparecchi fotografici e l’introduzione di fotocamere performanti dentro gli iPhone, smartphone ecc. è la volta di un nuovo genere. Ma nella fase due stiamo vivendo qualcosa di abbastanza nuovo: l’invenzione dei generi.

Di nuovo perché tante persone si stanno appassionando alla “street photography” o fotografia di strada o come vogliamo chiamarla? Userei piuttosto la locuzione “fotografia della strada”, ma è lo stesso. Come risponderebbe il mio allievo tedesco: perché è facile. O meglio perché qualcuno ti ha detto che è facile. Perché qualcuno, il mercato, ti ha messo in condizione di esercitarla (fotocamere miniaturizzate, ecc. ecc. ) e ha deciso che ti piace. Questo fa il mercato, crea il bisogno per motivare gli acquisti e le persone credono che l’ordine causale sia inverso, ma non è così: devono vendere quindi ti convincono che ti serve, non l’opposto. Risultato?

Ovviamente prevedibile: la banalità della fotografia fine a sé stessa o fotografia del disimpegno, che dir si voglia, finirà per fagocitare la memoria di Cartier Bresson come prima è accaduto ad Ansel Adams. Perché?

Il famoso francese non divenne quello che è perché faceva fotografie per la strada ma perché faceva fotografie dense di significati, per strada, in viaggio, dentro le case, ecc. Era un reporter, punto. Raccontava storie e lo faceva in modo esteticamente coinvolgente. Possiamo discutere fino alla morte se sia stato sopravvalutato, idolatrato, ecc. o citare esempi di altri ottimi fotografi che hanno fatto scuola, resta il punto: la fotografia di strada non esiste. Altrimenti dovrebbe anche esistere la “fotografia di casa”, la “fotografia di cortile”, ecc. Le immagini che sono passate alla storia immortalano un milieu, un’epoca e tante altre cose, raccontano l’uomo, che vive ANCHE per la strada. La strada è il luogo dove avvengono cose significative nella vita quotidiana e l’occhio del fotografo sa renderle iconiche, rappresentative, portarle fuori dal tempo. In un certo senso la storia che racconta è talmente grande da non poter essere assimilata a una storia giornalistica, non avendo confini certi, ma i confini ci sono eccome, dettati dalla sensibilità e capacità quasi “chirurgiche” o di scalpellino del fotografo, che sgrossa la materia enorme con cui si confronta, ma non è un “genere”.

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Niente di tutto ciò si vede nella stragrande maggioranza delle fotografie di strada che oggi riempiono il portfolio di fotografi devoti al genere. So che questa affermazione attirerà astio, ma chi si presenta come fotografo specializzato in fotografia di strada, fondamentalmente, non ha ancora capito che cosa è la fotografia  o quanto meno non ne conosce nemmeno un po’ la storia. Chi fa solo fotografia di strada (e non fotografie anche per la strada), mi si passi l’arroganza, non è un fotografo.

Come sempre accade una possibilità tecnica induce a un comportamento imitativo. In epoca analogica, con tutti i suoi limiti tecnologici, per i fotografi avere la possibilità di nascondere la fotocamera e scattare con poca luce era un desiderio motivato. Ma il desiderio dello strumento nasceva dall’esigenza di poter esprimere un tipo di fotografia verso la quale si aveva sviluppato un occhio critico e una sensibilità. I fotografi che riuscivano ancora con la pellicola a immortalare scene di vita quotidiana in contesti urbani di vita ordinaria, sono stati dei pionieri. Ma non perché avessero strumentazioni specifiche, nate per quello scopo, semmai adattavano le strumentazioni inadeguate alla loro visione, soprattutto ne sfruttavano le limitazioni in maniera creativa. I pionieri sono così, vedono cose che gli altri non si immaginano, o ancor meglio vedono laddove gli altri restano ciechi (finché il mercato non fornisce loro mezzi, scopo e cliché). E se il mercato non offre strumenti per la loro visione se li inventano. È così che immagini meravigliose fatte per la strada, perché cariche di significati, ci sono state donate.

©2013 fotobiettivo.it / Marco Palladino – riproduzione riservata

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