martedì 24 febbraio 2015
Lo zen della fotografia in viaggio: fotografare con gli occhi, ricordare coi sensi.
Aggiungi questo post al tuo FlipboardPrendo spunto da questo interessante articolo di Leonello Bertolucci su Il Fatto Quotidiano, introduce una riflessione che fa parte dei miei pensieri da diverso tempo. Ho deciso di scrivere un articolo per approfondire (potenza dell’ipertesto!) oltre il piano soggettivo che poi non è mai meramente soggettivo ma sempre epistemologico ed è una riflessione che viene fatta non a caso da molti fotografi della vecchia guardia.
La fotografia è cambiata in tanti modi ma non nella sostanza. Quello che è cambiato davvero è il suo pubblico, la sua diffusione, il suo motivo d’essere, il senso del fotografare. L’articolo citato fa notare giustamente che per chi si sente fotografo (e non turista dotato di fotocamera), “fotografare – come asseriva Henri Cartier-Bresson – è un modo di vivere; dunque se vivere e fotografare sono inscindibili e si alimentano a vicenda, il tentativo di separarli appare eretico”.
Questa frattura è una cosa che i fotografi sentono, perché è avvenuta e certificata. L’avvento della fotografia di massa, e la diffusione di massa della fotografia, che non è la stessa cosa (la rivoluzione digitale è stato soprattutto questo) ha letteralmente scippato interi settori della fotografia professionale per relegarli (dal punto di vista del fotografo che si sente tale) oppure donarli (se vediamo il processo come una “democrazia dell’immagine”) a chiunque sia dotato di fotocamera e un minimo di tecnica. Sia chiaro che io non prendo posizione, non sono nessuno per farlo e poi chiunque lo faccia è un pazzo, il processo è inarrestabile, ma mi limito da sempre nei miei articoli a notare i pro e i contro dei fenomeni.
Parlando di fotografia di viaggio, anche il turista ha la facoltà di immortalare immagini di ottima fattura che in linea di massima restano alla superficie delle cose. Mai come oggi in un mondo così globalizzato e trasversale nell’economia e nel mainstream culturale, viaggiare significa andare a scoprire angoli di diversità sempre più nascosti alla superficie, che siano sotto casa o all’altro capo del mondo non fa differenza. Mi sorprende parecchio quando ad esempio vengo contattato da indiani incuriositi dal mio lavoro sulle classi povere dell’India. Una realtà di “casa loro” che a quanto pare ignorano. Così come un fotoreporter indiano potrebbe aver raccontato una realtà nascosta ai nostri occhi, proprio sotto casa nostra, e conoscerla meglio di noi che qui viviamo.
La fotografia di viaggio, democratica o relegata che sia, non è più appannaggio del fotografo professionista, il che la espone a vantaggi e svantaggi. I vantaggi sono presto detti, una quantità enorme di immagini di ottima fattura e a costo zero. Gli svantaggi sono tutti a carico del senso del fotografare, dell’annoso problema dei cliché fotografici, della difficoltà di leggere in un’immagine qualcosa oltre lo stereotipo che aleggia nella mente del turista. O meglio, che data l’invasione di tante immagini, è più difficile scovare l’originalità del vedere fotografico. Eppure all’occorrenza anche il fotografo occasionale può trasformarsi in reporter e documentare quello che vede magari per caso. Non che succeda spesso, in fondo rispetto alla quantità di strumenti fotografici in viaggio è sorprendente quanto siano pochi i materiali documentali. Ma qui parliamo dell’opposto, ovvero del fotogafo che come dice Bertolucci è sempre tale e che all’occorrenza vuole immortalare qualcosa che prescinde dall’incarico o progetto.
Che cosa è successo in questi anni? Semplice, il fotografo professionista ha smesso di fare le foto che chiamerei “fuori progetto”, ovvero quelle immagini che il sentirsi fotografo fa sì che si cerchino sempre, anche solo per una mera ricerca estetica. Perché essere fotografo non ti abbandona mai. Ma oggi che lo voglia o no, con una rete che straborda di belle foto a costo zero che coprono ogni angolo del mondo, un fotografo che pure lo è sempre, avrebbe motivo di fare foto svincolate da un progetto? Ecco un esempio, la bellissima foto di Larry Burrows, noto fotoreporter che ha documentato la guerra in Vietnam e che certamente non lavorava come fotografo di viaggio se non occasionalmente, per la rivista Life, perché appunto all’epoca un certo tipo di fotografia non era alla portata di chiunque.
Non solo Life (che tra l’altro ha chiuso, almeno nella versione cartacea, proprio perché una simile rivista ha perso certe ragioni d’essere) non commissionerebbe più queste foto ai suoi fotoreporter, probabilmente anche il fotografo, come andiamo dicendo dall’inizio, non sente più il bisogno di farle. Chi fotografa per il mondo ha bisogno di una motivazione esterna, non gli basta portarsi a casa un ricordo, desidera portare delle testimonianze, filtrate e concettualizzate in modo studiato, rigoroso e unico, anche se slegate da un discorso organizzato, o progetto che dir si voglia. Per quale altra ragione se non donarla al mondo dovrei creare un’immagine? Il principio di fondo accomuna tutti, è un’esigenza umana condivisa tanto dal dilettante quanto dal professionista (categorie ormai fluide), il che spiega perché i fotoamatori siano tanto pronti a regalare le proprie foto a giornali e riviste, a inondare il web delle proprie creature, senza altro motivo se non il piacere di farle vedere, ma è proprio il professionista a rendersi maggiormente conto del ruolo della fotografia e a fare scelte in totale controtendenza. In un certo senso fa parte della maturità anche stilistica, si arriva appunto allo zen della fotografia. Si fotografa con gli occhi, si continua ad esercitare il proprio sentire di fotografo, irrinunciabile, ma si sa che certe fotografie ormai non hanno più ragione di esistere. Se ne decreta il lutto pubblico. Ma se ne trattiene la memoria e il senso. Si fotografa con gli occhi, si ricorda con tutti i sensi.
D’altronde il fotogiornalismo contemporaneo ha abbandonato già da un po’ certi generi. O si occupa di eventi di cronaca, politica, guerre, ecc. che sono sempre nell’agenda di ogni redazione, oppure è alla ricerca continua di storie minori ma dense di umanità, di spunti di riflessione sull’uomo che prescindono dalle differenze culturali, dai confini geografici ed etnici. Storie piccole ma universali, storie in cui lo spettatore può riconoscerci. È qualcosa che comporta da una parte un avvicinamento importantissimo, piccole storie significa che l’altrove ci è vicino, non alieno. Parlando di reportage ad esempio, la vita quotidiana di chi soffre dall’altra parte del mondo è forse più poetica e umanamente coinvolgente (ci accomuna) che la sua sofferenza ritratta e spiattellata a toni forti, che invece spinge lo spettatore verso un distanziamento. Ma c’è anche una certa dose di narcisismo in parte del pubblico (è una mia modesta opinione), che deve sentirsi rispecchiato nelle storie che vede fotografate e non tollera differenze di identità, religione, pensiero, insomma la diversità. Due rovesci della stessa medaglia. In ogni caso, l’altrove è demodè.
In questo senso secondo me troppo frettolosamente è stata relegata la fotografia di viaggio a qualcosa di appartenente a un mondo che non esiste più. La globalizzazione c’è, è vero, ma le realtà etniche e culturali permangono, aldilà di internet, connessioni virtuali ed economie di grande scala. Forse non basta più semplicemente vederle e fotografare, forse è necessario raccontarle. In questo senso solo un progetto rigoroso può restituire giustizia e conoscenza, anche laddove il pubblico è ormai disinteressato all’altrove che viene percepito come a portata di un volo lowcost. L’altrove esiste, ma è sempre meno esemplificabile da una fotografia. Nessuno si stupirebbe di un’immagine del Taj Mahal ai giorni nostri e dubito che Burrows vorrebbe ancora fare questa fotografia. E poi, a ben guardarla…il cliché della cornice, la luna sopra (è photoshoppata?), ne abbiamo viste troppe di foto così, signor Burrows. Quei neri così chiusi, perché non si iscrive a un corso di fotoritocco?
© 2015 Marco Palladino – www.fotobiettivo.it