Drop Down MenusCSS Drop Down MenuPure CSS Dropdown Menu

martedì 25 novembre 2014

(auto)critica fotografica, ovvero tutto ciò che una foto non dice

Aggiungi questo post al tuo Flipboard
Mi voglio avventurare in un percorso di critica fotografica che non mi compete, sono solo un fotografo. E proprio perché solo un fotografo posso soltanto tentarlo su una mia foto, su qualcosa che conosco bene. Una AUTO-critica appunto. Le riflessioni che farò sono pane quotidiano per chi lavora nel mondo della comunicazione ma ritengo interessante presentarle al pubblico più vasto, dato che oggi per certi versi siamo tutti editori nel mare della socialità/condivisione virtuale.

Nel 2009 durante un percorso di ricerca fotografica su divere questioni legate alle minoranze etniche, non solo curde, in particolare in Anatolia orientale, ho soggiornato a Istanbul, città assai interessante sotto moltissimi punti di vista, non solo storici o turistici. La storia recente della Turchia, e in particolare le tensioni che la attraversano da sempre tra aspirazione alla modernità, intesa come appartenenza alla cultura Occidentale (basti ricordare l’adozione dell’alfabeto latino all’inizio del ‘900) e le origini asiatiche sempre sentite e anzi rivendicate (tra l’altro il ruolo di Ankara nello scacchiere mediorientale è stato centrale, non fosse altro come base di operazione militari), è particolarmente esemplificabile attraverso immagini che ritraggono le donne in questo paese.

Una cosa che colpisce chiunque visiti Istanbul è notare come ci siano donne vestite all’occidentale e altre totalmente coperte. In maniera assai iconica questo rappresenta la situazione culturale del paese. Ovviamente un’immagine non dice, non illustra, un’immagine allude, richiama, evoca. Assumere che una donna coperta sia di fede islamica è probabile, ma che questa richiami il ruolo della donna difeso da un certo fanatismo religioso è tutt’altra cosa.

La foto che segue è stata concepita avendo parecchie cose in testa, non certo verità, dubbi piuttosto. Ma se dubita troppo il fotografo finisce per non fare il suo mestiere. È chiaro che aldilà delle intenzioni razionali non controlliamo perfettamente ciò che una scena che si presenta agli occhi evoca nella mente, né come venga poi destrutturata e tradotta in un’immagine in quella (magica) frazione di secondo in cui la si concepisce, ma a posteriori possiamo ripercorrere il lavorio dell’inconscio (che spesso si associa a un inconscio collettivo).

_MG_1363
Giovane donna per le strade di Taksim, Istanbul

Il discorso è complesso. Come fotografi abbiamo talvolta il controllo editoriale sulle nostre immagini, laddove queste facciano parte di un progetto specifico, ma l’uso che viene fatto delle immagini (nostre e in generale) è del tutto arbitrario, ovvero sfugge al controllo. Ho scelto questa foto perché è paradigmatica, in una giornata dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne, con notizie del premier turco che nel 2014 fa ancora dichiarazioni misogine, è perfetta. Questa foto è nell’archivio di agenzia, qualsiasi testata potrebbe usarla per raccontare qualcosa che va ben oltre le intenzioni del fotografo. Ovvero, quello che la fotografia non dice.

Che cosa dice questa foto? Semplice, una giovane donna con un foulard in testa, ma le dita smaltate (che sia nelle strade del quartiere più moderno di Istanbul lo dice solo la didascalia) cammina da sola circondata da una folla anonima (notare che nessun altro volto appare). La folla è composta da sagome solo maschili. Tutte in ombra. Il volto della ragazza è illuminato, ma triste. Tra queste sagome una si palesa in maniera quasi minacciosa dietro la ragazza, un uomo di una certa età, nascosto dietro di lei, come una figura maschile opprimente. La ragazza è evidentemente pensierosa, quasi triste. Indossa un foulard in testa, segno di non far parte né delle ultramoderne né delle donne più conservatrici (per quanto riguarda il mostrarsi in pubblico). In quanto tale rappresenta benissimo la doppia anima del paese.

La foto non dice altro (a me anzi pare che dica anche troppo). Potrebbe benissimo rappresentare la condizione di parziale, incompleta emancipazione femminile in paesi come la Turchia. Ma il volto pensieroso e triste potrebbe dipendere da ben altro tipo di afflizioni personali. Ovviamente al fotografo questo non importa. Non laddove una foto non sia meramente descrittiva ma porti dei riferimenti, dei significati, che poi possono essere o meno  decodificati dal pubblico. Ma che succede se questa foto viene utilizzata con una notizia che ne travisa totalmente i contenuti? Riferita a un contesto che non è quello di Istanbul ad esempio (a tutto quello che abbiamo raccontato sopra). È possibile. Avviene continuamente. E il fotografo non ha alcun controllo a meno che decida di non pubblicare le sue foto se non in regime di totale controllo editoriale (il che praticamente ne uccide il lavoro).

Oggi la fotografia micro-stock sta soppiantando (anzi direi che lo ha già fatto) un certo tipo di immagini “concettuali” di stampo più giornalistico. Se devi pubblicare un articolo sulla violenza di genere, ad esempio, compri a 0,20 centesimi un’immagine realizzata artatamente in studio che ritrae, che so, il volto di una donna che piange, con una mano maschile, e il gioco è fatto. Il cliché è servito.  Non serve scomodare un fotogiornalista né un’agenzia. Forse per certi versi è un bene che certe immagini siano ridiventate illustrazioni. Alle origini della fotografia e del giornalismo, questo ruolo era chiarissimo. Prima della fotografia d’azione i giornali usavano illustratori, disegnatori. Poi la fotografia, con l’invenzione dell’otturatore e di strumentazione portatile, ha preso quel ruolo. Di illustrare appunto, didascalicamente, quel che si dice in un articolo. Nell’epoca d’oro del fotogiornalismo il rapporto si è invece invertito, laddove sono le foto a creare notizia e/o significato, liberando la fotografia dal suo vincolo di illustrare, portandola finalmente ad alludere, significare, emozionare.

L’uso che viene fatto delle immagini sfugge al controllo e il problema ormai non riguarda soltanto i professionisti, dato che la stragrande maggioranza delle immagini circola in contesti non editoriali. L’uso improprio delle immagini non è un rischio è una realtà. Come difendersi? Francamente non ne ho la più pallida idea. La sensazione è che ci sia una sorta di ritrosia generale a soffermarsi su immagini che alludono a cose più complesse di quanto nei pochi secondi che dedichiamo alla visione delle fotografie si possa tollerare. Questo fa sì che più facilmente si possa associare un’immagine a qualsiasi cosa, così come avviene nella pubblicità.

In questi giorni passa a tambur battente una presunta pubblicità “progresso” sulle reti nazionali in cui si invita a donare soldi a un fantomatico “progetto amore” (già il titolo stucchevole e capzioso dice tanto), per farlo si utilizza la drammatica fotografia di una donna sfigurata dall’acido. Il messaggio è fraudolento perché associa un dramma documentato dal fotografo e relativo a un tema importante con qualcosa di assai diverso, che cavalca una tendenza mediatica e mira a raccogliere denaro. Mi chiedo se il fotografo lo sa e se pur sapendolo è contento di aver venduto la sua foto. .

© 2015 www.fotobiettivo.it / Marco Palladino

Lo hai trovato interessante? Condividi con i tuoi contatti:
Aggiungi questo post al tuo Flipboard