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lunedì 20 gennaio 2014

I cliché della fotografia. Ha senso distinguere tra estetica amatoriale e professionale?

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Le immagini di questo articolo sono tratte da un reportage che feci due anni fa per celebrare i comuni ospitanti le Olimpiadi del Salento. Come spiego più avanti, nella fotografia professionale l’impiego di cliché fotografici, consapevolmente, è una necessità affinché il prodotto (in questo caso UN VIDEO proiettato a una vasta platea durante l’inaugurazione) sia apprezzato da un pubblico di massa. Questo non impedisce al fotografo di inserire qua e là i suoi stilemi, di utilizzare la propria sensibilità, che verrà colta solo da alcuni, senza compromettere l’apprezzamento popolare.

Siamo invasi dai tramonti digitali. Appaiono e scompaiono dai nostri monitor alla velocità di un soffio di vento. L’elemento naturale più suggestivo e universalmente noto è continuamente convertito in atto visivo effimero, eppure sappiamo bene che è la prima ragione che spinge la gente a utilizzare una macchina fotografica: uno spettacolo fugace che solo la fotografia sembra capace di catturare, la visione momentanea che tutti vogliono immortalare.

I critici liquidano queste foto come “cartoline” o semplici luoghi comuni. La bellezza di un tramonto che è universale può essere trasformata, in una fotografia, in qualcosa di altamente stucchevole, fondamentalmente rientrante nell’ambito del kitsch. Susan Sontag, nel suo famoso libro On Photography, incolpa la produzione di massa per la perdita di quel senso di meraviglia che la fotografia ancora suscitava pochi anni fa, e liquida i “fotografatori di tramonti” come produttori seriali di un’estetica ingenua, dove le fotografie sono immagini idealizzate, così come avveniva  agli albori della fotografia, prive di contenuti. Questo infatti è ancora l'obiettivo della maggior parte dei fotografi amatoriali, per i quali una bella fotografia è una fotografia di qualcosa di bello, come una donna o un tramonto.

Sulla stessa linea ma forse anche un gradino più in basso si collocano le immagini di gattini e cagnolini o case di paglia, ecc. immagini contraddistinte da un livello culturale basso; denotano un tratto sentimentale e sdolcinato dell’esistenza che viene riportato pari pari nella visione estetica e spesso con una tecnica assai carente, ma questo è secondario; in un certo senso, fotografie infantili.

Se nell’ambito del post-modernismo la ricerca dell’arte naïve è stata una decisa reazione agli stilemi ingessati, nell’ambito della fotografia la recente diffusione di massa - e non parlo della diffusione dei mezzi di produzione, quelli ci sono sempre stati, ma dei mezzi di condivisione - ha reso certi stilemi totalmente idiosincratici spingendo a una distinzione sempre più marcata tra fotografia “seria” e fotografia “amatoriale”, ma è davvero così che stanno le cose?

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Il problema fondamentale, senza che ci giriamo attorno, è la "cultura" o più prosaicamente la formazione. Infatti, nonostante l'apparente monotonia del prodotto di massa che è diventata la fotografia dei tramonti, non tutte le fotografie di tramonti sono uguali; è ancora possibile che queste foto incorporino una ricerca che non sia solo estetica ma dettata da contenuti culturali? Ovviamente sì. Più alto è il livello di istruzione non solo visiva, culturale in genere, più un genere così “banale” si arricchisce di valenze non solo estetiche. Il che ovviamente deve avvenire sia a livello di produttore che di consumatore, o per meglio dire di fotografo/lettore, figure che mai quanto oggi spesso coincidono. Più alto è il livello di istruzione generale, maggiore è la percentuale di chi rifiuta le immagini ordinarie che suscitano ammirazione popolare.

Personalmente ho ricevuto le critiche più dense di contenuti e attenzione visiva da non fotografi, da persone però molto colte, letterate, nutrite con arti visive, filosofia, scienza, consapevolezza del mondo, e quant’altro, che siano fotografi o no non ha alcuna importanza.

Non tutti i tramonti sono la stessa cosa: tecnicamente ed esteticamente, alcuni sono "buoni", alcuni sono "cattivi", ma possono apparire egualmente “belli”. I concorsi fotografici traboccano di immagini mediocri, poco interessanti e decisamente mal fotografati sono pure i tramonti, il pane quotidiano di tutti. Solo perché il cielo è diventato una bella tonalità di arancione e rosso, molti fotografi pensano di dover fare poco più che puntare la loro macchina fotografica e scattare. Anche il più abile dei fotografi si trasforma spesso in un “acchiappatramonti” di fronte alla vista di un sole calante.

La produzione continua e la circolazione dei tramonti (che sia chiaro non mi hanno fatto niente, è solo il cliché per antonomasia, lo utilizziamo affinché tutti possono comprendere) possono suggerire un atteggiamento imitativo da pecora -come ogni adesione ai modelli popolari- tuttavia ogni fotografia è sempre unica per colui che la realizza, dal momento che la fotografia è vissuta come un’azione di estensione della propria esperienza visiva, fine a se stessa (più spesso non di espansione ma di banalizzazione/limitazione di questa..mi viene in mente una pubblicità recente in cui una ragazza davanti alla maestosa e silente montagna bianca non sa far altro che ascoltare musica scadente col cellulare, per riportare quell’esperienza emotiva in un ambito massificato “sicuro” e noto, identico ovunque, come a rispondere istintivamente all’horror vacui), ma che come tale è sempre esistita. Il fatto è che oggi tutto questo scorre indiscriminato e veloce nel web e va a rafforzare i cliché consolidati, contaminando, diciamo così, l’inconscio fotografico della massa. Sono sicuro che tutto questo rientri in modelli di analisi di pertinenza della psicologia che indaga la produzione/condivisone fotografica come tratto comportamentale/relazionale di massa, ma ammetto la mia totale ignoranza al riguardo.

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La questione di fondo a cui vorrei giungere è però un’altra. Se nella banalizzata serialità di tramonti, gattini, ringhiere, pozzanghere, fienili, barche di pescatori, reti da pesca, oggetti vari, ecc. è facile individuare un cliché, cosa dire della fotografia di qualità, cioè prodotta da fotografi preparati e non ingenui, che pure fa ricorso al cliché come strumento di comunicazione visiva? Chiaramente si intuisce una certa consapevolezza da parte del fotografo che forse ha meno scusanti, se mai servissero, dell’inconsapevole produttore di cliché.

Il fotografo professionista non è necessariamente un bravo fotografo, nel senso che realizza immagini uniche e irripetibili. E’ più spesso un abile fotografo di cliché. Non a caso nell’ambito, ad esempio, della fotografia di matrimonio ci sono ottimi fotografi sia tra persone colte (che vivono la fotografia come mezzo per comunicare storie e contenuti rispondenti a una conoscenza e sensibilità che richiedono tempo, perseguendo la fotografia cosiddetta d’autore) e fotografi illetterati che pure sono capaci di creare bellissime foto di spose, ecc. Entrambi fanno questo mestiere per denaro e passione, ma probabilmente il fotografo illetterato è un professionista migliore in quanto riconosce nel cliché un valore estetico che lo mette in sintonia immediata col cliente. Ammettiamolo, quanti di noi fotografi che per arrotondare scattano anche ai matrimoni non storcono il naso e considerano questa fotografia come prodotto di serie B?

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Eppure nell’ambito della fotografia professionale non editoriale (su quella editoriale torneremo) tutto sommato l’equazione è sana. Il mio cliente vuole un cliché ben realizzato, la sposa vuole sentirsi una diva Hollywoodiana? Diamo loro quel che chiedono, il nostro lavoro sarà apprezzato.

Il sentimentalismo è un tratto persistente nella fotografia di massa e vincente in certi ambiti professionali. D’altra parte se qualcuno sta cercando di sostentarsi tramite la fotografia i cliché e i “mi piace” del vasto pubblico sono da tenere in grande considerazione. Possiamo allora affermare che l'arte è negli occhi di chi guarda. É arte se lo spettatore pensa che sia arte, non il fotografo. La sensibilità del fotografo non conta più. Alla fine, l'arte deve attrarre le visite al proprio portfolio online o tante visualizzazioni/condivisioni sui social.

E’ così che tanti chiamano “artista” un produttore abile o meno abile di cliché e dal loro punto di vista hanno ragione. E anche da un punto di vista numerico. Qualsiasi persona oggi è bombardata di immagini e ritiene di avere un suo gusto personale (che è in verità seriale, ma è vissuto come personale), nessuno di noi escluso, perché l’esposizione continua alle immagini ci condiziona tutti, il fiume costante di cliché fotografici contamina le menti a tutti i livelli.

Solo l’isolamento e la ricerca di una visione personale, mossa da una spinta interiore, ha fatto sì che certi fotografi in totale controtendenza sviluppassero uno stile e una visione assolutamente originali. Molti di questi sono morti negletti, solo dopo la morte ne è stato riconosciuto il valore.  Mi chiedo come ci si riesca oggi senza disciplina e un certo snobistico distacco. D’altronde, fate vedere delle foto d’autore a un pubblico inesperto, spacciandole per foto qualsiasi, e questo probabilmente le troverà poco significative, non abbastanza “belle”, incomprensibili, già viste.

©2013 fotobiettivo.it / Marco Palladino – tutti i diritti riservati

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