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domenica 18 novembre 2012

Ladakh: un piccolo baluardo dell’ultimo Tibet. Reportage etnografico e indagine sui mutamenti di una società ecosostenibile

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Testo e foto di Marco Palladino
(da Modus Vivendi nr.50 Dicembre 2003)LehPalBandA>>>ENGLISH TEXT BELOW<<<

Una valle nel centro dell’Himalaya
 
Leh è la capitale di una vasta regione tibetana occidentale - attualmente entro i confini più remoti della repubblica indiana - che prende il nome da due aree contigue, il Ladakh e lo Zanskar (dal fiume omonimo), la cui civiltà si è sviluppata nei secoli lungo il corso dell’alto Indo e dei suoi affluenti, che hanno scavato qui una moltitudine di fertili valli ad altezze incredibili. Si arriva alla capitale passando via terra da Srinagar, o a bordo di comodi aeroplani di linea; oppure partendo in corriera da Manali (Himachal Pradesh), su una strada aperta al turismo nel 1989, dopo un estenuante viaggio di due giorni attraverso irreali paesaggi lunari, percorrendo cinquecento chilometri all’interno di bacini glaciali in secca e superando passi montani di oltre cinquemila metri. L’arrivo è una visione che stordisce: un immenso greto petroso attorniato dal verde smeraldino di una valle che è cinta dalle vette tra le più alte del mondo, perennemente incastonate sotto un fulgido cielo di settembre. La brulla terra, quasi un deserto di sabbia, che accompagna il viandante per centinaia di chilometri, si interrompe all’improvviso, ma lascia il vivido sentore che tutta questa grazia è un dono in precario equilibrio.
 
Passo di Keylong
 
Il traffico di trucks carichi di merci d’ogni genere e sempre incrociati sull’orlo di un qualche precipizio è impressionante. C’è dell’eroico nella quotidianità di questi trasportatori, prevalentemente punjabi, ma anche una grossa responsabilità per l’attuale invasione di oggetti difficilmente smaltibili che invadono le piazze del Ladakh solo per rendere più confortevole il soggiorno dei turisti stranieri e più “moderna” la vita dei locali. Ma non è una novità. La presenza dell’esercito indiano, che presidia i confini con i vicini stati del Pakistan e della Cina - sempre pronti ad accaparrarsi qualche chilometro di territorio come hanno già fatto nel passato – risale al ’60 e ha trasformato le abitudini dei locali. Si calcola che dal 1988 si spenda quasi un milione di dollari al giorno per quest’inutile guerra dei confini. L’apporto della milizia indiana è comunque vitale non solo per mantenere aperte le molte strade montane (spesso niente più che una traccia sul terreno) ma anche per rifornire di carburante i mezzi di trasporto, gli impianti di riscaldamento e i generatori di elettricità.
 
Le Montagne intorno a Leh
 
La via della Pashmina
 
Questa terra è stata, ancora fino al secolo scorso, un fondamentale crocevia di traffici mercantili tra il Tibet orientale, l’India e l’Asia centrale. La fama della sua Pashmina, una lavorazione di lana mista a seta, che raggiunse le corti di tutta l’Asia, si deve proprio a questa posizione privilegiata e intermedia tra Kashmir, Tibet e Cina (e l’antico Turkmenistan). La nascita stessa di Leh si fa risalire facilmente alla costruzione di un avamposto sull’Indo, all’interno di una delle valli più fertili, da cui si potesse controllare la via carovaniera.
 
Camion con motti religiosi sulla lunga strada che collega Keylong a Leh attraverso l'Himalaya
 
La condizione di relativo isolamento e, visto con un ottica moderna, il fragile ordine a cui erano soggette le popolazioni delle valli non riguardava quindi il transito o la presenza di stranieri nel territorio quanto piuttosto la sfera dell’economia e dell’organizzazione sociale, rimaste quasi inalterate nei secoli e passate indenni attraverso le dominazioni islamiche dei Moghul e dei vari maraja del Kashmir, che mantennero un effettivo controllo sulla regione fino ad alcuni anni dopo l’indipendenza indiana del 1947. La diversità dei gruppi etnici che compongono le comunità odierne (i nomadi Khampa, sino-tibetani, gli stanziali Mon, e i Drukpa di origini indoeuropee) fa intuire la grande mescolanza. La stessa via Manali-Leh è una specie di percorso etnografico attraverso la graduale fusione di due culture, quella indiana e quella a impronta più strettamente lamaista – affermatasi fortemente dal XIV secolo con l’arrivo di pellegrini tibetani.
 
Monastero sull'acropoli di Leh
 
Un fragile ecosistema
Ragazza in costumi tradizionali a LehTuttavia, questa è sempre stata una società fragile, con una struttura economica basata sul sistema monastico, come accadeva nel medioevo latino. Le regole di comportamento codificate anche in precetti religiosi esprimevano obblighi forti, come quello di far prendere i voti ad almeno uno dei figli maschi o come quella forma non rara di poliandria in base alla quale si permetteva al fratello del primogenito di vivere nella stessa casa e con la stessa moglie ma non di acquisirne una sua, per godere così anch’egli dei beni ereditati senza però disperderli. Una abitudine, questa, che nemmeno le restrizioni della legge indiana hanno completamente eliminato.
Tutte queste regole, a ben vedere, tendevano a controbilanciare un’estrema limitatezza delle risorse ambientali, fruibili nel tempo dei soli 4-5 mesi miti dell’anno e in uno spazio circoscritto alle valli, ma hanno comunque radicato nella cultura locale un atteggiamento assai mite e una consapevolezza sorprendentemente diffusa della propria precaria posizione nell’ecosistema. La compassionevole visione dell’uomo e della natura espressa dal buddismo trova qui, in una parte del mondo in cui ogni aspetto della vita quotidiana è ancora regolato da questa filosofia, una realizzazione commovente; qui più che altrove se ne intuiscono le profonde radici generative.
 
 
 
Le valli coltivate a orzo
 
La visita ai molti gompa (monasteri), dislocati lungo i corsi dei fiumi e talvolta arroccati sopra pareti inaccessibili, non suggerisce nulla di più, circa questa visione, rispetto all’osservazione delle pratiche di vita quotidiana. Perché ogni borgo è qui un sacrario dedicato alla forza generativa della vita, ed è costellato di costruzioni che sono oggetto di una pratica spirituale quotidiana; come i lunghissimi muretti votivi, carichi di mantra scolpiti nelle pietre che i devoti lasciano al proprio destino; o come i chorten, talora cioè solo alcune pietre collocate a piramide, a segnalare il passaggio di un pellegrino oppure costruzioni a foggia di enormi stupa innalzati su una base quadrata, e tanto grandi da ospitare – così narra la tradizione – le reliquie di qualche Buddha storico. Ci si va per purificare gli oggetti e pregare. E accanto a ogni vicolo scorre sempre almeno un rigo d’acqua, il cui gorgoglio fa il paio con il tintinnare delle campanelle e lo stormire delle bandiere colorate, anch’esse delle preghiere appese dai fedeli il più in alto possibile, sui tetti delle case o sui remoti passi di montagna.
 
 
Leh
 
La consapevolezza dei limiti
 
Se analizzata sotto l’aspetto più meramente economico, questa società basata sul baratto e scarsamente sviluppata poteva addirittura considerarsi primitiva. In Ladakh ogni famiglia godeva del suo terreno e dei suoi animali e da ciò traeva di che vivere, senza alcun bisogno di accaparrare o vendere per avere in cambio servizi o immagazzinare beni oggi invece ritenuti indispensabili. Si pensi solo che la misura dell’estensione dei campi era tradizionalmente espressa in ore o giorni necessari all’aratura e non in unità di misura spaziale, che riportano piuttosto a una mentalità occidentale di possesso latifondiario. Lo stesso lavoro agricolo, che ai nostri occhi non può che apparire estremamente faticoso, era invece compiuto secondo strategie collettive di mutuo soccorso prive di contropartita economica. All’occorrenza, se una famiglia era indietro con la mietitura, i vicini accorrevano in soccorso, senza chiedere niente in cambio. E questo poteva accadere solo in una società in cui le esigenze individuali erano non solo perfettamente compatibili con (e dipendenti da) quelle generali ma soprattutto sentite universalmente come tali. Nessuno si rallegrava delle sfortune altrui, perché prima o poi queste avrebbero pesato anche nella sua vita.
 
 
Valle di Nubra, vista dalla cima di un monastero diroccato a 2 giorni di cammino dall'ultimo villaggio. Nel moastero vive un solo monaco eremita
 
La società ladakha quindi non conosceva, se non sporadicamente, episodi di violenza e animosità tra i suoi membri, per il semplice fatto che questi non potevano avere alcun senso. Non vogliamo qui cadere nell’abusato mito del buon selvaggio o dei paradisi perduti, che la recente etnologia ha sufficientemente criticato; ma si consideri la rapidità dei mutamenti e la loro violenza. Oggi, ai canti e alle chiacchiere scherzose che allietavano il lavoro dei campi si sono sostituiti i mormorii di un’altra lingua, quella dei braccianti del Nepal e del Bihar (poverissima regione dell’India orientale) che passano qui la stagione per poche rupie al giorno e permettono di pagare ai figli dei neopossidenti i costi di una vita moderna, fatta non solo di istruzione esclusivamente scolastica (e quindi alquanto astrusa dalla realtà del luogo) ma anche di dispendiosi accessori industriali, di cinema di massa, di automobili, ecc. La nuova dipendenza dall’economia finanziaria globale sta disgregando i legami sociali di un tempo perché di fatto ha cambiato gli orizzonti culturali delle nuove generazioni, che non si riconoscono più nella tradizione e mostrano talvolta vergogna delle proprie origini.
 
Valle di Nubra
 
Nel giro di due-tre decenni questo piccolo Tibet ha subito una vera rivoluzione, ma è difficile che un visitatore occidentale si accorga di quanta straordinarietà caratterizzi i piccoli confort cui egli è abituato ma che hanno drammaticamente umanizzato l’ambiente e al contempo disumanizzato la società ladakha. I sistemi tradizionali di produzione alimentare ed energetica erano inseriti in un ciclo che, detto con parole odierne, era completamente ecocompatibile. Ma questi sistemi sono ormai perduti, e comunque inadeguati a fronteggiare i bisogni attuali di una popolazione quasi triplicata; e le nostalgie non servono a salvare ciò che ne rimane. E’ lo stesso presidente del Ladakh Ecological Development Group (abbreviato: LEDeG) – un centro ecologico sorto nel 1983 ad opera di una lungimirante linguista, Helena Norberg-Hodge, che aveva vissuto in Ladakh per molti anni e aveva compreso per prima, da occidentale appunto, il pericolo insito nelle trasformazioni in corso - a suggerire questa lettura: “La nostra fondatrice aveva un’idea troppo romantica, anacronistica”, mi dice il giovane presidente, master in sociologia all’università di Bombay, a conclusione del nostro colloquio. Come che sia, gli sforzi del LEDeG si concentrano oggi soprattutto sull’educazione, potenziando il recupero delle tradizioni mediante laboratori scolastici, e sullo sviluppo di nuove tecnologie verdi che in parte integrano le dette tradizioni con sviluppi del tutto inediti. Uno dei cavalli di battaglia del gruppo, è il cosiddetto forno solare, che con un semplice sistema di vetri su sfondo nero sfrutta l’enorme potenziale energetico del sole.
 
Pastorelli incontrati lungo il cammino per il monastero diroccato nella valle di Nubra
 
Le illusioni della moderna tecnologia
 
La modernità comunque ha sempre un costo e induce a uno stile di vita diverso. Una considerazione che ho registrato in molte interviste è che, malgrado paia che in occidente facciano tutto le macchine, pure la frutta, e gli uomini hanno solo da spendere denaro - è quel che si evince dai film e dal comportamento dei turisti che sciamano nella valle in estate! - la realtà è che con la vita moderna sta crescendo solo lo stress, un concetto pressoché sconosciuto tra questa gente. Per converso, si ha anche meno tempo per stare insieme. Il lavoro moderno infatti non conosce soste né pause speciali. In passato, durante il lungo inverno di inattività, si celebravano le feste più importanti. Oggi invece le feste sono state spostate alla fine dell’estate, nel periodo di maggiore affluenza turistica.
 
Monastero di Thiksey
 
Le nuove tecnologie inoltre stanno sempre più aumentando il divario tra ricchi e poveri. Se prima il 95 % della popolazione possedeva esattamente le stesse cose, il restante 5%, i più poveri, erano semplicemente i monaci lamaisti. Inoltre, non si conoscevano problemi come la disoccupazione, con tutti i sui annessi. Ma non è questo che uno dei molti possibili esempi, una piccola dimostrazione storica di come l’esportazione della nostra tecnologia, con il sistema economico e culturale relativo, non solo si riveli dannosa all’ambiente ma talvolta addirittura meno conveniente di quelle tradizionali. Con un semplice esempio si capirà meglio il concetto. Se prima uno yak (o il suo ibrido locale, giacché la zootecnia è conoscenza antica), perfettamente adattato a vivere anche oltre i seimila metri, nutrendosi sui pascoli di montagna immagazzinava energia altrimenti impossibile da sfruttare e forniva così latte, carne, ma anche pelo per la tessitura di coperte, sterco come combustibile, lavoro fisico, ecc., e tutto a costo zero, oggi si preferisce allevare mucche americane perché, secondo una visione specialistica, danno molto più latte (ovviamente, solo gli esemplari femmine); ma non potendo sopravvivere a queste altitudini, durante l’inverno vanno tenute in calde stalle e vanno foraggiate con cibo speciale – un prodotto dei campi e non dei pascoli spontanei. Esse inoltre non sono altrettanto forti per lavorare e generalmente necessitano di molte cure. Ma chi userebbe più lo sterco di yak per riscaldarsi quando è così a buon mercato il petrolio che le autocisterne portano da sud ogni giorno (col risultato che le valli sono colme di bidoni arrugginiti)?
 
Giovani bonzi puliscono il monastero di Thiksey
 
Inoltre, è evidente che se un trattore impiega mezzora a compiere il lavoro che un animale compie in mezza giornata la scelta è obbligata. Oggi un contadino ha a disposizione fertilizzanti e pesticidi prima sconosciuti che al pari del trattore possono aumentare la produzione, con effetti assolutamente disastrosi per la salute (è recente lo scandalo per la presenza di quantità pericolose di pesticidi nelle bibite più diffuse in India, tutte in mano alle multinazionali). E’ importante quindi la crescita di una nuova generazione che sulla base degli studi compiuti abbia anche un’altra visione, meno tradizionalista, della salvaguardia dell’ambiente e della cultura locale, e sappia adoperarsi per un impiego più consapevole dei mezzi moderni. Alcuni inoltre, solitamente i più giovani, ritengono che i mutamenti culturali causati dal nuovo corso economico siano soltanto superficiali e che “nelle cose importanti, come la famiglia e la religione, nulla è cambiato”. costruzioni votive sulla via per il monastero di SheyMa non è così.
 
La radicale trasformazione dell’economia locale comporta sempre un radicale ripensamento delle strategie collettive e individuali. Volendo applicare alla cultura dell’uomo un concetto caro agli ecologi, quando avviene un’estinzione massiccia la perdita può essere riparata abbastanza rapidamente; tuttavia in queste circostanze il numero di specie in sé è poco importante, se i caratteri di ognuna non sono sufficientemente distinti da consentirne la collocazione in un genere separato. Un popolo che sia appendice economica e culturale di un sistema globale di cui non riceve se non gli scarti, pur conservando alcune caratteristiche proprie, se non vogliamo dirlo estinto, è comunque un’altra testimonianza della inarrestabile sconfitta della diversità.
 
 
Leh, anziana signora siede davanti allo stupa sacro nel centro monastico
 
2003-2012 Marco Palladino – All rights reserved ©2003 Modus Vivendi – All rights reserved
 

Ladakh, Tibet. The radical changes in environmental and social standards in the little Tibet of India. Text and photos by M.Palladino (Modus Vivendi nr.50 December 2003)
 

A Valley in the center of Himalaya
 
Leh is the capital of a vast western region of Tibet - currently within the farthest reaches of the Indian republic - which takes its name from two contiguous areas, Ladakh and Zanskar (name of the river), whose civilization has developed over the centuries along the course of the high Indus and of its tributaries, which have carved a multitude of fertile valleys here at incredible heights. You get to the capital on roads going from Srinagar, if not choosing for the airplane, leaving by bus from Manali (Himachal Pradesh). This road opened to tourism in 1989, it takes two days of journey through surreal lunar landscapes, along five hundred kilometers over glacial basins and crossing mountain passes of over five thousand meters. The arrival is a vision that stuns: an immense stony river bed surrounded by the emerald green of a valley which is surrounded by the peaks among the highest in the world, always embedded in a bright September sky. The barren land, almost a desert of sand, which accompanies the traveler for hundreds of miles, stops suddenly, but leaves you the vivid feeling that all this grace is a gift in a precarious balance.
 
The traffic of trucks loaded with goods of all kinds and always crossing on the edge of some precipice is impressive. There is some heroic effort in the everyday life of these carriers, most of whom of Punjabi origins, but also a great responsibility for the current invasion of objects which invade the streets of Ladakh, only to make more comfortable the stay of foreign tourists and more "modern" the life of the locals. But it is not new. The presence of the Indian Army, which oversees the borders of the neighboring states of Pakistan and China – they are always ready to grab a few kilometers of territory as they have done in the past – is back to the 60’s and has transformed the habits of the locals. It is estimated that since 1988 India spends almost a million dollars a day for this useless war of borders. The contribution of the Indian army is still vital, not only to maintain open the many mountain roads (often no more than a path on the ground), but also to refuel the transports, the heating and the electricity generators.
 
 
The Road of Pashmina
 
This land was until the last century an important crossroad of trade routes between eastern Tibet, India and Central Asia. The fame of his Pashmina, a processed wool mixed with silk, which reached the courts in all of Asia, is due precisely to this privileged location halfway between Kashmir, Tibet and China (and the ancient Turkmenistan). The very existence of Leh can be traced back easily to the construction of an outpost on the Indus, in one of the most fertile valleys, where you can control the caravan routes.
 
The state of relative isolation, and viewed with a modern viewpoint, the fragile order in which the populations of the valleys live, therefore, doesn’t concern the transit or the presence of foreigners in the territory but rather the sphere of the economy and social organization, that remained almost unchanged over the centuries and passed unharmed through the Islamic domination of the Mughals and various maharajah of Kashmir, who maintained effective control over the region until a few years after Indian independence in 1947. The diversity of ethnic groups that make up even the today community (Khampa nomads, Sino-Tibetan, the sedentary Mon, Drukpa and of Indo-European origins) suggests a great mixture. The same route Manali-Leh is a kind of ethnographic path through the gradual fusion of two cultures, Indian and Lamaist, that settled in the fourteenth century with the arrival of Tibetan pilgrims.
 
 
Votive Flags
 
A Fragile Ecosystem
 
However, this has always been a fragile society, with an economic structure based on the monastic system, as it did in Medieval Europe. The rules of behavior encoded in religious precepts, expressed strong obligations, such as that one of the sons at least has to take the votes or the not rare form of polyandry, which means that the one of the brothers was allowed to live in the same house with the same wife, but not to acquire its own, to regroup the inherited property without dispersing it. An habit, this, that even the restrictions of Indian law have not completely eliminated.
 
These rules, if well considered, tended to counteract the extreme scarcity of environmental resources, which are available in time of only 4-5 months of the year and concentrate in the narrow space of the valleys, but they have forged an identity in the local culture which is very mild and not surprisingly shows awareness of their precarious position in the ecosystem. The compassionate vision of man and nature expressed by Buddhism here, in a part of the world where every aspect of daily life is still governed by this philosophy, more than anywhere shows its deep generative roots.
 
The visit to the many Gompa (monastery), located along the rivers and sometimes perched on inaccessible walls, does not suggest anything more about this vision, compared to the observation of the practices of everyday life. Because every village here is a shrine dedicated to the generative force of life, and is diffused within buildings that are subject to a daily spiritual practice, as long as votive stone walls, loads of mantras carved in stone that the devotees leave to their fate, or as the Chorten, sometimes just a few stones placed in a pyramid, indicating the passage of a pilgrim; or such as the buildings in the shape of a Stupa erected on a square base, and large enough to accommodate - according to tradition - the relics of some historical Buddha. People go there to purify objects and to pray. And next to each alley at least one line of water runs, whose gurgling is coupled by the ringing of bells and the rustling of colorful flags, also hanging by the prayers of the faithful as high as possible on the roofs of houses or on the remote mountain passes.
 
Traditional festival in Leh
 
Awareness of the Limits
 
If analyzed under the most purely economic sight, this society based on barter and poorly developed could even be considered primitive. In Ladakh every family enjoyed his land and its animals and what makes a living, with no need to hoard or sell in exchange for services or store goods today considered indispensable. Just think that the measure of the extent of the camps was traditionally expressed in hours or days of work and not in units of spatial measurement, which instead recall a Western mentality of land possession. The same agricultural work, that our eyes can only look as extremely tiring, was instead carried out according to collective strategies of mutual aid without financial consideration. Where appropriate, if a family was back with the harvest, neighbors rushed to help, without asking anything in return. And this could only happen in a society where the individual needs were not only perfectly compatible with (and dependent on) the general ones but also universally felt as such. No one rejoiced the misfortunes of others, because sooner or later they would have also suffered for this in their lives.
 
The society Ladakhi did not know, if not sporadically, violence and animosity among its members, for the simple fact that these could not make any sense. We would not fall into the abused myth of the noble savage or the myth of lost paradises, which the recent ethnology has criticized enough, but let’s consider the rapidity of change and the violence. Today, the songs and the chatter during the work in the fields have been replaced by murmurs of another language, the one of laborers from Nepal and Bihar (poor eastern region of India) who spend the season here for a few rupees a day and allow the Ladakhi owners to pay for their children’s education, for the costs of a modern life. And not only the school education (which is somewhat abstruse from the reality of this place), but also for expensive industrial accessories, mass movies, cars, etc.. The new global financial dependence is tearing apart the social of the past, because in fact has changed the cultural horizons of the younger generations, who do not identify anymore in the traditions and even feel sometimes ashamed of their origins.
 
Within two or three decades, this little Tibet has undergone a revolution, but it is difficult for a Western visitor to get aware of how extraordinary it is to have here the small comfort that he is accustomed to, those that have dramatically humanized the environment and at the same time dehumanized the society of Ladakh. Traditional systems of food production and energy were placed in a cycle, said in today's words, was completely environmentally friendly. But these systems are now lost, and in any case inadequate to address the current needs of a population nearly tripled, and nostalgia does not help to save what's left of it. So it is the president of the Ladakh Ecological Development Group (abbreviated: LEDeG) - an ecology center founded in 1983 by a visionary linguist, Helena Norberg-Hodge, who had lived in Ladakh for many years and had foreseen as first from western view, the danger inherent in the changes taking place - to suggest this reading: "Our founder had a too romantic and anachronistic idea, he says, with the wisdom of his master's degree in sociology from the University of Bombay. As it is, the efforts of LEDeG today are focusing mainly on education, enhancing the recovery of traditions through school workshops, and the development of new green technologies, some of which complement those traditions with completely new developments. One of the flagships of the group is the so-called solar oven, a simple system of glass on a black background that exploits of the enormous potential energy of the sun.
 
The Yak and the environment
The Illusions of Modern Technology
 
Modernity, however, always has a cost and leads to a different lifestyle. One consideration that I have experienced in many interviews is the idea that Western people do all through the machines, even production of fruit, and men have only to spend money - this is what they see in the movies and in the behavior of tourists during summer! The reality is that with modern life only stress is growing, a concept almost unknown among these people. Conversely, you also have less time to stay together. Modern work in fact knows no stops or special pauses. In the past, during the long winter of inactivity, they celebrated their major festivities. Today, however, celebrations have been moved at the end of the summer, in the period of greatest presence of tourists.
 
New technologies are also increasing the gap between rich and poor. If in the past 95% of the population had exactly the same things, the remaining 5%, the poorest, were simply the Lamaist monks. Completely unknown were problems such as unemployment, with all its consequences. But this is not just one of many possible examples, a small historical demonstration of how the export of our technology, with its economic and cultural system, not only proves to be harmful to the environment but sometimes even less convenient than the traditional ones. With a simple example, we will better understand the concept. If before a yak (or its local hybrid), perfectly adapted to live beyond the twenty thousand feet, feeding with the mountain pastures and “stored” energy otherwise impossible to exploit, and thus provided milk, meat, but also blankets, dung for fuel, physical labor, etc.., and all at no cost; now American cows are preferred, because, according to a specialized vision, they give much more milk (only the females of course), but these can not survive freely at these altitudes during the winter, so have to be kept in warm stables and to be fed with special food - a product of the fields not spontaneous pastures. They need medicines. They also are not as strong to work and generally require a lot of care. But who would use yak’s dung anymore to keep home warm when it's so “cheap” to buy that oil that tankers carry from the south each day (with the result that the valleys are full of rusty cans)?
 
It is also clear that if a tractor takes half an hour to do the work that an animal makes in half a day the choice is forced. Today a farmer has available fertilizers and pesticides and can increase production, with absolutely disastrous effects on health (recent scandal is due to the presence of dangerous amounts of pesticides in soft drinks popular in India, all in the hands of multinationals). It'd be important to growth a new generation who on the basis of scholar studies has another vision, less traditional maybe, but a bridge between the environment and local culture, who knows how to work towards a more modern sustainable society. Some also, usually the younger ones, believe that the cultural changes caused by the new economy are only superficial and that "the important things, like family and religion, have not changed." But it is not.
 
The radical transformation of the local economy always involves a radical rethinking of collective and individual strategies. If we to apply to human culture a concept dear to ecologists, if a massive extinction occurs then the loss can be repaired fairly quickly, but under these circumstances the number of species in itself is unimportant, if the characters are not sufficiently distinct from eachother so that they can be placed in a separate genre. A population who is who is an economic and cultural appendix of a global system which does not give anything if not waste, while retaining some of its own traditional characteristics, if we do not want to call it extinct, we can call it another testimony to the relentless loss of diversity.
 
©2003-2012 Marco Palladino – All rights reserved ©2003 Modus Vivendi – All rights reserved

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